domenica 31 dicembre 2006

La morte di Saddam Hussein


Saddam giustiziato, Bush condanna se stesso


Furio Colombo


 


Quando Saddam Hussein sarà impiccato, una di queste ore, mentre tanti continuano a credere nel detto kennediano «un problema creato da uomini può sempre essere risolto da uomini», George W. Bush avrà proclamato per sempre il suo fallimento.

Ha fallito nel non avere capito l´immensa differenza che c´è tra il liberare un Paese da un dittatore e distruggerlo. Ha fallito nel non sapere (non voler neppure sapere) che cosa fare dopo la conquista, che non è mai stata una vittoria.

Ha fallito nel non avere intravisto, neppure per un istante, i volti veri e umani di un popolo che poteva, doveva partecipare alla ricostruzione, ed è stato emarginato, umiliato, imprigionato, escluso.

Ha fallito nel progetto strano e così palesemente sbagliato di unire l´ideale della democrazia a quello del potere sopra ogni legge e ogni trattato internazionale, immaginando (e ciò anche in futuro apparirà follia) che si possano costruire insieme Abu Grahib e la libertà, Guantanamo e il nuovo ordine democratico.

George W. Bush ha avuto sfortuna.

È stato circondato dai peggiori personaggi che si siano affacciati alla vita pubblica del mondo negli ultimi anni. O ha avuto la disgrazia di sceglierli.

Che cosa pensi l´America di questi personaggi e delle azioni di cui sono responsabili, lo ha detto nel modo più drammatico il rapporto di un americano al di sopra di ogni sospetto, James Baker, già segretario di Stato di Bush padre, statista stimato nel mondo. Il suo giudizio è il più umiliante che possa toccare a un presidente che ha proclamato una guerra sbagliata, ha vantato una vittoria che non c´è stata, continua a credere che vincere significhi più forza militare, più soldati, più armi, mentre persone vicine a lui - quelle che hanno integrità e coraggio - gli stanno descrivendo l´orrore di ciò che ha fatto.

Il New York Times di ieri ha pubblicato il discorso di un oscuro senatore repubblicano, Gordon Smith. Di lui, dice il giornale, non si era mai sentita la voce in Senato. Prima di Natale, tra lo stupore dei colleghi si è alzato e ha detto: «Il mio percorso con questa politica finisce qui, adesso. Mi chiedete di sostenere una guerra in cui ogni giorno la stessa pattuglia di soldati americani percorre una strada che non conosce, fra gente che non ha alcuna ragione di amarci, e ogni giorno qualcuno di quei soldati salta in aria. Non posso più dire di sì a questa politica. Dico che è assurda. Anzi temo che sia criminale».

Racconta il giornale: «Nel silenzio dell´aula le parole del leale senatore repubblicano sono risuonate con tanta forza che Washington e anche i più cinici addetti alla vita politica hanno dovuto tenerne conto. Molti senatori sussurravano: Smith ha parlato per me».

Ora è evidente la sfortuna più grande di George W. Bush: nessuno dei suoi collaboratori più stretti, in quella riunione del Crowford Ranch, in Texas, dove quasi certamente è stata decisa la morte di Saddam Hussein e dunque l´inizio della seconda parte della tragedia irachena, ha avuto il coraggio del «leale senatore Smith».

Bush ha avuto la sfortuna di avere accanto un amico inutile come Tony Blair, che gli ha dato sempre ragione e ha spaccato l´Europa in un momento cruciale. Adesso l´Europa è tutta unita e tutta contraria a un gesto che non ha niente a che fare con la pietà e molto con la politica, perché è un evidente e gravissimo errore. È triste che l´Europa non sia stata così unita quando era stata lanciata l´idea, infinitamente più realistica di questa guerra che non può finire, di «liberare» l´Iraq rimuovendo con una ben concertata manovra diplomatica Saddam Hussein, e dando origine a un processo democratico in un Paese senza macerie e senza morti, in un Paese in cui le vecchie orrende prigioni sarebbero state chiuse invece di aprire nuove orrende prigioni, invece di confondere ogni giorno gli iracheni che soffrono con i terroristi che sono un comune pericolo.

Molti ricordano, non solo in Italia, che deporre senza violenza Saddam Hussein era stata l´idea di Marco Pannella, e che era un´idea vincente. Per alcuni di noi adesso è facile ricordare l´inerzia deliberata dei giorni berlusconiani. Ma è stata una inerzia più grande, più estesa e diffusa.

Adesso il mondo sta dicendo a George Bush di salvare se stesso e quel che resta della sua reputazione, evitando questa impiccagione due volte immorale. Perché conferma l´orrore della pena di morte. E perché apre una nuova e più violenta stagione di vendetta e di scontro e chiama morti su morti.

Ma George Bush, lo abbiamo detto, è un uomo sfortunato. È sordo verso i suoi sostenitori leali. Ed è circondato di poche persone che gli danno ragione. Era rimasto in molti (parlo anche dell´opinione americana) quel barlume di speranza, Condoleezza Rice. Se la sua voce non si sente questa volta, anche il suo breve passaggio sulla scena del mondo ha finito il percorso, e non lascerà traccia. Resterà ai collezionisti di carte e documenti politici il compito di spiegarci perché. Resterà il problema di spiegare il ruolo, che sta diventando penoso, di Tony Blair, che si butta in una guerra che non può spiegare, da cui non sa come uscire. E sull´immenso e ovvio errore di «giustiziare» Saddam Hussein non ha speso una sola parola utile.

Chi tace e fa il complice adesso è un cattivo amico, conferma l´errore e si avvia nel loggione degli statisti che hanno perso l´occasione di cambiare la storia. Con l´impiccagione di Saddam Hussein tutto il peggio della storia (compreso il peggio di Saddam Hussein) si ripete. Che almeno non si dimentichi che tutto questo maledetto percorso si poteva evitare, e che la politica ha come primo compito di evitare il sangue, non di spargerlo.

Persino adesso George W. Bush poteva salvarsi. Per quel che sappiamo, ha scelto di no. Il suo carattere distintivo restarà sbagliare fino alla fine.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 30.12.06

martedì 12 dicembre 2006

12 dicembre 1969: la strage di Piazza Fontana


Il romanzo delle stragi


di Pier Paolo Pasolini


dal "Corriere della sera" del 14 novembre 1974 col titolo "Che cos'è questo golpe?" 


Io so.


Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).

Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.

Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.

Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.


Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).


Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".


Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.

Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.


Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.


Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.

Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile.


Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974.

Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.


A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.

Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.


Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.


Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi. Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.


Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici" è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.

Ma non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.


È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all'opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.


Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto "insieme" di dirigenti, base e votanti - e il resto dell'Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un "Paese separato", un'isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel "compromesso", realistico, che forse salverebbe l'Italia dal completo sfacelo: "compromesso" che sarebbe però in realtà una "alleanza" tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell'altro.

Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo. La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.


Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere. Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch'essi come uomini di potere.


Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l'intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore. Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto.


L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento. Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire. Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana. E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista. Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.


Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.


 


 

giovedì 7 dicembre 2006

Ecce Bombo

Torna la pellicola restaurata a quasi 29 anni dalla prima uscita

da oggi al Nuovo Sacher di Roma e in altre sale italiane


Moretti: "Ecce Bombo non doveva far ridere""Ero convinto di aver fatto un film doloroso”Non mi aspettavo tanta identificazione"


di PAOLO D'AGOSTINI




 







Una scena tratta da "Ecce Bombo"



ROMA - "Mi avevano raccontato di uno straccivendolo che andava in giro urlando così. Avevo un orribile titolo alternativo: Sono stanco delle uova al tegamino". Ecco perché Ecce Bombo: "Solamente un suono. Ma posso ripartire da prima?".

Prego, Moretti. "Dopo i primi tre corti avevo scritto la mia prima sceneggiatura, Militanza militanza.... Mi accorsi però che non solo era difficile farmela produrre ma anche solamente farla leggere. Dopo un po' di sale d'attesa capii che, anziché lamentarmi, avrei dovuto continuare a fare da solo. Ancora in superotto. Lasciai perdere questa storia di un gruppo della sinistra extraparlamentare che si avviava a diventare partitino. E scrissi un canovaccio, più semplice da realizzare in superotto, che era Io sono un autarchico. Alla fine del '76 esce al Filmstudio a Roma, diventa un caso e cominciano ad arrivarmi delle proposte. Avevo, già pronto, il solito Militanza militanza... A febbraio nasce il "movimento del '77" e io mi rendo conto che la mia sceneggiatura ha perso di attualità, perché il nuovo movimento è completamente diverso dalle vecchie organizzazioni di estrema sinistra. Scrivo allora tre soggettini: uno si chiamava Piccolo gruppo, sull'autocoscienza maschile, un altro Delirio d'agosto, sul mio personaggio e i suoi rapporti con la famiglia, le ragazze. Il terzo era una storia d'amore ambientata nell'università. Ecce Bombo nacque dalla fusione dei primi due. Ho girato il film a settembre-ottobre '77, non immaginando il successo che avrebbe avuto, né che stavo costruendo un personaggio che sarebbe poi tornato tante volte: Michele Apicella. Ero convinto di aver fatto un film doloroso, che raccontava una porzione di realtà molto circoscritta e poco rappresentativa della condizione giovanile italiana. Tutto mi aspettavo fuorché l'identificazione che poi c'è stata, anche da parte di persone lontanissime".

Pensava di aver fatto un film drammatico e per pochissimi: fu subito percepito come un film comico e come specchio di una generazione intera, o quasi.

"Questa è la fortuna del cinema. E poi sarebbe ridicolo se il regista pretendesse di fare il censore, il controllore o il vigilante delle reazioni del pubblico. Dal momento in cui un film è proiettato su uno schermo il pubblico lo vede come vuole. Rivedendolo mi è saltata addosso la consapevolezza che quei personaggi oggi potrebbero essere miei figli: il mio, quelli di Fabio Traversa o di Paolo Zaccagnini. La stessa compagnia di amici di Io sono un autarchico". Come già in Io sono un autarchico e nei film successivi qui c'è anche suo padre che era professore universitario di epigrafia greca. "Mio padre aveva molto talento come attore. C'era però un patto tra noi: non dovevo dare sue foto alla stampa, non dovevo metterlo nei titoli e neppure nei trailer. Ad ogni consiglio di facoltà i suoi colleghi lo prendevano in giro. Ma sono convinto che fosse invidia". È vero o no che voleva sentirsi ed essere identificato come discendente di Fellini e fratello di Bellocchio?

"Non mi aspettavo niente, e non mi proponevo di imitare o di essere erede di nessuno. (Tra l'altro angosciandomi molto durante le riprese, e non ho mai saputo cosa rispondere a tutti quelli che mi dicevano: "Una cosa si vede chiaramente: che vi siete divertiti un mondo!". No, per niente, nessuna allegria, nessuna felicità)".

Insomma come si trova a rivedersi? Non arrossisce per la presunzione o l'ingenuità di quel Moretti? "Io ho verso il film le stesse reazioni che avevo un anno dopo averlo fatto. Quello che mi emozionava mi emoziona oggi. Casomai ci vedo qualcosa in più. L'aver colto cose che mi apparivano ovvie, come l'emergere delle radio e delle tv "libere" (si diceva così, non sapevamo che sarebbero diventate tutt'altra cosa). E mi viene in mente un'altra cosa, che non c'entra col film: 30 anni fa c'era un'opinione pubblica che reagiva e si scandalizzava, oggi non esiste più. Si digerisce tutto e le due frasi più ricorrenti sono: "La coerenza è la virtù degli imbecilli", stupida e prepotente. E l'altra: "Io non voglio dare giudizi". E perché? Te lo ha vietato il dottore?". Non è tipo da aver fatto un'indagine di mercato: perché far riuscire Ecce Bombo a quasi trent'anni di distanza? Che cosa le fa credere che oggi possa incontrare un pubblico. E quale? "Penso che possa raccontare quel periodo e anche qualcosa di come siamo ancora: i rapporti tra le persone, quelli familiari, il velleitarismo.... Tra parentesi: io i film sugli anni '70 li ho fatti negli anni '70, come sugli anni '80 negli anni '80, e non dopo, quando sarebbe stato più facile. E poi non è che voglio "occupare il mercato", ce ne stiamo tranquilli al Nuovo Sacher e in una ventina di altre sale". Ogni iniziativa presa nella sua sala è sempre baciata dalla fortuna... "Forse non è solo fortuna. E approfitto per ricordare che la sera, dopo l'ultimo spettacolo al Nuovo Sacher, reciterò il monologo Caro diario, dai quaderni che scrivevo durante la lavorazione di quel film". Ecce Bombo uscì a pochi giorni dal sequestro Moro. "L'8 marzo '78. La settimana dopo i brigatisti uccisero cinque uomini della scorta e sequestrarono Moro. È un clima che ricordo ancora molto bene". È più difficile oggi cominciare di quando ha cominciato lei? "No. Oggi come ieri bisogna essere determinati, non bisogna fare del vittimismo, bisogna crederci al punto di chiudersi ogni altra via d'uscita o soluzione di riserva. Almeno: io ho fatto così".


(6 dicembre 2006)

mercoledì 29 novembre 2006

La democrazia imbrogliata


Aprile. Elezioni private              


di Gianni Barbacetto e Barbara Ciolli


da Diario


 


In quattro regioni delicate si sperimenta il voto elettronico. Sarà gestito da Telecom, Eds e Accenture, l’indiziata numero uno per lo scandalo delle elezioni in Florida. Partner di Accenture è Gianmario Pisanu, il figlio del ministro dell’Interno. E un esercito di interinali avrà in mano la chiave dei risultati. «I brogli rientrano nella professionalità e nella storia della sinistra. Qualcuno di loro si vantò, nel 1996, di aver sottratto a Forza Italia un milione e 705 mila voti...». Così Silvio Berlusconi ha iniziato l’intervista a Lucia Annunziata del 12 marzo, quella poi finita con la fuga dallo studio televisivo. I brogli elettorali sono la sua ossessione.


Li teme, li evoca, li denuncia da quando si è buttato in politica. Da quando ha cominciato a perdere, poi, l’ossessione è diventata incontenibile. «Loro», quelli della sinistra, «hanno un esercito di professionisti, a danno dei nostri dilettanti, che vengono puntualmente fatti fessi», aveva gridato nel giugno 2004 dal palco di una manifestazione elettorale per le regionali nella rossa Sesto San Giovanni.


Ora, per arginare i «professionisti» della sinistra, Berlusconi lancia alla carica i suoi «dilettanti»: si chiamano «Legionari azzurri», si definiscono «difensori del voto» e sono coordinati nientemeno che da Cesare Previti. «Sì, noi pensiamo di mandare persone per bene che cerchino di far sì che la sinistra non possa cancellare la volontà degli elettori», ha spiegato Berlusconi ad Annunziata. I «Legionari» sono una schiera di attivisti di Forza Italia che in tutto il Paese si stanno apprestando a presidiare i seggi, come rappresentanti di lista, per vigilare sulle operazioni elettorali. Arriveranno al 9 aprile istruiti politicamente e preparati tecnicamente, per evitare che «i rossi continuino con i brogli». È già pronto un libretto di otto pagine, tascabile per poterlo portare sempre con sé, intitolato proprio I difensori del voto: sarà il manuale per i 121 mila militanti di Forza Italia chiamati a controllare i seggi. Sveglia all’alba già il sabato 8 aprile, arrivo nelle sezioni elettorali prima di tutti, contare e ricontare le schede, non perdere di vista le urne, uscire per ultimi, la sera, e non abbandonare mai, ma proprio mai, il proprio posto: questi i consigli «per non farsi fregare». E in molte regioni sono già partiti i corsi di formazione per i «Legionari». «In Lazio, per esempio», spiega a Diario la coordinatrice regionale di Forza Italia Beatrice Lorenzin, «abbiamo già iniziato la preparazione dei 5.136 rappresentanti di lista che difenderanno il voto in questa regione».


I Legionari di Previti. Ma Forza Italia non ha pensato solo ai rappresentanti di lista, da sempre arruolati dai diversi partiti tra i loro militanti. Nelle pieghe della nuova legge elettorale c’è infatti anche una novità, passata finora inosservata, che riguarda gli scrutatori e i presidenti di seggio, cioè coloro che, regolarmente remunerati, devono gestire i seggi, sovrintendere alle operazioni di voto e infine scrutinare le schede: non saranno più estratti a sorte, ma saranno scelti e nominati dalle commissioni elettorali dei Comuni, che dovranno attingere da elenchi di volontari chiusi il 30 novembre 2005. A quella data la nuova legge elettorale era stata approvata soltanto dalla Camera e doveva ancora essere votata al Senato, dove sarebbe passata il 21 dicembre; ma Forza Italia si era già portata avanti e aveva mandato i suoi militanti a iscriversi in massa nelle liste dei Comuni.


Così ad aprile una valanga di «Legionari azzurri» s’installerà nei seggi non solo con il ruolo, volontario e di controllo, di rappresentanti di lista, ma con quello, operativo, ufficiale e remunerato, di scrutatori. La coordinatrice emiliano-romagnola Isabella Bertolini, per esempio, già il 18 novembre aveva diffuso un appello ai militanti: «Chiedete ai soci, ai simpatizzanti, agli amici e ai conoscenti di Forza Italia di presentare la domanda di iscrizione all’albo degli scrutatori del loro Comune di residenza... Non lasciamo che anche questa volta i seggi elettorali restino in mano alle sinistre... Con le modifiche introdotte dalla nuova legge elettorale ora possiamo davvero cambiare le cose». 


Il campo avverso non è stato invece così pronto ad annusare il cambiamento legislativo prima che diventasse realtà. «Ma non siamo preoccupati», spiega Nora Radice, responsabile organizzativa provinciale dei Ds milanesi. «Secondo le nostre informazioni, non ci sono state corse all’iscrizione negli albi. E i nostri rappresentanti di lista vigileranno in ogni seggio». La dirigente svela un altro retroscena della spericolata legge approvata dal centrodestra. «La commissione elettorale del Comune di Milano ha estratto a sorte gli scrutatori, come prevedeva la vecchia normativa, e poi li ha nominati in blocco, come stabilisce la nuova». Ve l’immaginate la povera commissione, se avesse dovuto votare uno a uno, nome per nome, gli scrutatori di un migliaio di seggi? E ve li immaginate cinque giudici in tutto chiamati a dirimere le controversie che possono sorgere in un parco di circa 5 milioni di schede lombarde? È un’altra novità della legge, che per il Senato ha soppresso gli uffici circoscrizionali presenti in ogni capoluogo di provincia e ha accollato l’ultima fase di controllo del voto a un ufficio regionale unico. Non per niente il presidente della commissione elettorale lombarda, Domenico Urbano, ha reclamato altri 60 giudici da aggiungere ai suoi quattro commissari.


«Berlusconi continua a parlare di brogli. Chi parla troppo di una cosa, la pensa e la evoca», commenta Beatrice Magnolfi, parlamentare dei Ds. Che possa scattare un meccanismo simile a quello che in psicoanalisi si chiama proiezione, quando si attribuisce agli altri un proprio desiderio? Proprio Magnolfi, che in passato è stata assessore all’Innovazione a Prato, in questa legislatura ha scelto di essere, come si definisce, «il cane da guardia del ministro dell’Innovazione Lucio Stanca» e il 10 febbraio, per chiudere in bellezza, gli ha presentato un’interrogazione sullo scrutinio elettronico che sarà sperimentato al prossimo appuntamento elettorale. Sì, perché il 9 e 10 aprile non proveremo soltanto una nuova legge bislaccamente proporzionale, definita «una porcata» da uno dei suoi inventori, con incerti premi di maggioranza, con candidati tutti imposti dai vertici dei partiti e con una scheda grande come un manifesto. Ci sarà anche un’altra grossa novità: nelle 12.680 sezioni di quattro regioni, oltre 11 milioni di persone (più di un quinto degli elettori italiani) saranno chiamati a votare con la tradizionale matita sulla tradizionale (benché ben più ampia) scheda, ma poi i loro voti saranno scrutinati al computer: grande modernizzazione, inevitabile aggiornamento tecnologico, prezioso risparmio di tempo. Ma anche complessa storia di rischi e commistioni che vale la pena di raccontare.


Votare Stanca. Tutto comincia il 3 gennaio 2006, quando il governo vara il primo decreto legge dell’anno, con il numero 1. Come capita spesso al gabinetto Berlusconi, nel provvedimento c’è dentro un po’ di tutto: disposizioni urgenti per il voto da casa di elettori che non possono spostarsi; ammissione ai seggi di osservatori dell’Osce (l’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa); ma soprattutto disposizioni per lo scrutinio elettronico. Sperimentazioni erano già state compiute alle europee del 2004 e alle regionali del 2005, questa volta però è una bella fetta di elettori a essere interessata alla sperimentazione: il 20 per cento delle sezioni. E per la prima volta allo scrutinio informatizzato è stato assegnato valore giuridico. Le schede di carta resteranno in archivio, ma saranno estratte dagli scatoloni soltanto in caso di contestazioni.


Le regioni coinvolte sono state scelte, secondo il ministro Stanca, «con il criterio del bilanciamento territoriale»: una al Nord, la Liguria; una al Centro, il Lazio; una al Sud, la Puglia; un’isola, la Sardegna. Guarda caso, però, sono tutte regioni in cui gli esiti elettorali sono incerti e che peseranno in maniera determinante per l’assegnazione dei premi di maggioranza (regionali, appunto) per il Senato.


In ognuna delle 12.680 sezioni coinvolte ci sarà un computer, due schermi video e un operatore informatico. Mentre gli scrutatori procederanno allo scrutinio tradizionale, contando i voti e impilando le schede, l’operatore digiterà i voti sulla tastiera e li controllerà su uno degli schermi, mentre il secondo sarà a disposizione degli scrutatori. Finita la conta, i dati di ogni sezione saranno inseriti in una «chiavetta» Usb. Le diverse «chiavette» Usb di tutte le sezioni presenti in un unico plesso (edificio) saranno portate a mano e inserite nel computer di plesso. Da qui una linea dedicata trasmetterà i dati direttamente e rapidissimamente al Viminale.


Bello? Sì. Ma anche sicuro? Al riparo da brogli informatici? Chi ricorda le feroci polemiche seguite al voto del 2000 per le presidenziali americane in Florida non può non porsi almeno il problema. Ma al ministero dell’Innovazione il portavoce di Stanca, Dario de Marchi, risponde che non c’è alcun rischio: «Le memorie Usb assegnate alle sezioni saranno inizializzate, dunque non potranno essere sostituite con altre. E la trasmissione dati a Roma sarà effettuata con una rete dedicata, assolutamente sicura». I tecnici del ministero possono intrattenere a lungo gli interlocutori su chiavi di sicurezza, codici identificativi, doppie password, trasmissioni Dmz...


Dopo le prime sperimentazioni di questo sistema, alle europee del 2004, il ministero ha costituito una commissione sul voto elettronico. Con quali risultati? «Avevamo segnalato diversi punti critici», ricorda Maurizio Migliavacca, coordinatore della segreteria Ds, che ne ha fatto parte. «Il punto fondamentale riguarda la formazione di presidenti e scrutatori dei seggi, ma soprattutto degli operatori tecnici: chi li sceglie? come? che formazione ricevono? Visto che si tratta di personale di aziende private, chi li controlla e chi garantisce per loro? E dato che i risultati delle regioni coinvolte nella sperimentazione saranno definitivi prima degli altri, chi garantirà una corretta comunicazione al pubblico? Non so se tutti questi punti critici siano stati presi in considerazione per il 9 e 10 aprile».


Lunedì 10 aprile, dopo le ore 15, 11 mila chiavette Usb con il voto dei cittadini italiani cominceranno a girare per l’Italia in tasca a soggetti privati. C’è da stare tranquilli? «Lo scrutinio eletronico è un vantaggio perché è veloce, ma per stare tranquilli ci vorrebbe il controllo finale di una commissione presso il ministero dell’Interno, composta anche da rappresentanti dei diversi schieramenti politici», conclude Migliavacca. «E vorrei che i dati arrivassero anche ai singoli Comuni, come già avviene per lo spoglio cartaceo».


Trattativa privata. Per niente tranquilla Beatrice Magnolfi, la deputata «cane da guardia del ministro dell’Innovazione»: «Il 10 febbraio 2006 ho presentato un’interrogazione a Stanca, ponendo una serie di domande. Come saranno garantite l’attendibilità e la correttezza delle procedure di rilevazione informatizzata dello scrutinio? Come possiamo essere davvero sicuri che le memorie Usb non possano essere manomesse? Perché non è prevista alcuna protezione per il trasporto di queste chiavette dalle sezioni al computer di plesso? Che tipo di linea sarà quella utilizzata per la trasmissione dei dati al Viminale?».


Ma non basta. C’è un altro ordine di problemi: come mai un’operazione che verrà a costare oltre 34 milioni di euro è stata affidata a trattativa privata? E chi sceglierà gli operatori informatici (saranno circa 18 mila) che faranno lo scrutinio informatico? E con quali criteri saranno scelti? Sono tre le aziende coinvolte nell’operazione: Telecom Italia, Eds e Accenture. Telecom gestisce la fetta maggiore del budget, fa da capocommessa e fornisce le linee per la trasmissione, ma anche tutto l’hardware. Eds, multinazionale Usa, ha sviluppato il software e coordina gli operatori. Accenture, la più grande azienda di consulenza al mondo, ha ottenuto un subappalto e in questo gioco fa il suo mestiere, cioè la consulenza. Le tre aziende sono state riconfermate nel gennaio di quest’anno, dopo aver svolto insieme le sperimentazioni precedenti, alle europee del 2004 e alle regionali del 2005. Ma i 18 mila operatori informatici saranno forniti da un’altra azienda, la Ajilon, che fa parte della multinazionale del lavoro interinale Adecco.


«L’appalto è stato assegnato a trattativa privata per ragioni d’urgenza, perché non c’erano i tempi per fare la gara», spiega Dario de Marchi. Il ministro Stanca lo ha ribadito nella sua risposta del 23 febbraio all’interrogazione di Beatrice Magnolfi: «Il decreto legge numero 1 del 2006 ha espressamente previsto che tale affidamento avvenga in deroga alle norme di contabilità generale dello Stato, stante il brevissimo lasso di tempo disponibile prima della consultazione elettorale; lo svolgimento delle procedure ordinarie sarebbe stato impossibile in tempi tanto ristretti».


Elezioni: imprevedibili? Così un appalto delicatissimo e di valore consistente, per l’avvenimento più prevedibile e programmabile che esista in democrazia, cioè le elezioni, è stato assegnato a trattativa privata al maggiore operatore telefonico italiano e a due multinazionali di origine statunitense. Eds è il colosso di gestione dati fondato da Ross Perot, il miliardario americano che in passato tentò di conquistare la Casa Bianca come candidato indipendente. Accenture è il nuovo nome assunto dalla Andersen Consulting, dopo essere stata coinvolta nello scandalo Enron. Fattura 14 miliardi di dollari con le commesse del governo americano di George W. Bush. Ha sede fiscale nelle isole Bermuda ed è notoriamente legata al Partito repubblicano, di cui è grande finanziatrice.


I democratici americani e numerose inchieste della stampa l’accusano di aver fornito un database per le liste elettorali delle ultime presidenziali in Florida da cui erano stati espunti, in base alla loro fedina penale, neri e ispanici (solitamente orientati verso i democratici). Lo scorso anno ha ricevuto dal governo una nuova commessa da 10 miliardi di dollari per un sistema di controllo per gli stranieri che entrano ed escono dagli Usa. Negli Stati Uniti Accenture è oggi subcontractor di una società che si chiama Election.com per il trattamento generale dei dati elettorali. Una parte di questa società è stata acquistata da uomini d’affari sauditi che vogliono rimanere anonimi.


In Italia Accenture entra di forza nelle commesse governative a partire dal 2001, quando l’ingegner Mario Pelosi, uno dei grandi manager mondiali di Accenture, diventa prima consigliere tecnico del ministro Stanca e poi capo dipartimento del ministero dell’Innovazione. Il progetto di scrutinio elettronico oggi è seguito da due manager Accenture, Carlo Loglio e Angelo Italiano, ma il nome più noto nell’azienda è un altro: Gianmario Pisanu, partner di Accenture e figlio del ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu. Già nel 2002, l’Accenture Italia del sardo Gianmario Pisanu era stata coinvolta nel megaprogetto (poi bloccato) di digitalizzazione della Sardegna: una torta da 48 milioni di euro da dividere con altri compagni di cordata. Ma nel Paese dei conflitti d’interesse, oggi nessuno sembra essersi scandalizzato per il fatto che l’appalto per lo scrutinio elettronico di un quinto degli elettori italiani sia stato concesso a trattativa privata all’azienda di cui è partner il figlio di un ministro: sarà l’azienda di Gianmario Pisanu a inviare i dati elettorali al Viminale, dove li accoglierà, paterno, Giuseppe Pisanu (candidato di Forza Italia in Puglia).


L’altro ministro coinvolto nella partita, Lucio Stanca, è ministro «tecnico» dell’Innovazione e della tecnologia: dovrebbe essere dunque una garanzia d’imparzialità. Peccato che sia candidato di Forza Italia in Calabria, Umbria e Piemonte. Più in generale, quello che sconcerta è che – in sordina, senza adeguata informazione e senza alcun dibattito nel Paese – sia stata di fatto privatizzata una parte dello Stato, un pezzo di ministero dell’Interno, e proprio nel cuore del gioco democratico: saltate le Prefetture e il Viminale, la correttezza delle elezioni è affidata in quattro regioni italiane ai computer, alle «chiavette» Usb, alla trasmissione dati e al personale tecnico di Telecom, Eds, Accenture, Adecco. Questo proprio nel momento in cui il Paese è scosso dallo scandalo degli spioni di Francesco Storace che tentavano di falsare il voto in Lazio. In cui Telecom compra pagine di quotidiani per spiegare che l’azienda non è coinvolta nelle intercettazioni abusive. E in quattro regioni considerate «in bilico», cruciali per la vittoria di uno dei due schieramenti in gara.


BOX


Pisanu Dinasty. Il ministro, i suoi figli. E un’indagine in Sardegna


Giuseppe Pisanu è un democristiano di lungo corso e per anni è stato deputato dc. Sardo di Sassari, è amico di Armando Corona, che poi diventerà Gran Maestro della massoneria, e di Flavio Carboni, faccendiere sardo dai mille affari, che gli presenta un giovane imprenditore lombardo di nome Silvio Berlusconi e un silenzioso banchiere di nome Roberto Calvi. Pisanu, mentre è sottosegretario al Tesoro, si interessa attivamente alla vicenda Ambrosiano. Nei mesi frenetici che precedono la scoperta della bancarotta dell’Ambrosiano, incontra Calvi per quattro volte, sempre accompagnato da Carboni. Poi, il 6 giugno 1982, risponde in Parlamento ad alcune interrogazioni sulla situazione della banca di Calvi, quando già circolano voci sul crac alle porte. Pisanu sostiene però che la situazione è normale e non accenna minimamente alla gravissima situazione debitoria del Banco Andino, controllato dall’Ambrosiano. Alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, Angelo Rizzoli dichiara: «A proposito dell’Andino, Calvi disse a me e a Tassan Din che il discorso dell’onorevole Pisanu in Parlamento l’aveva fatto fare lui. Qualcuno mi ha detto che per quel discorso Pisanu aveva preso 800 milioni da Flavio Carboni». Dopo lo scandalo P2 e il crac Ambrosiano, nel gennaio 1983 Pisanu è costretto a dimettersi da sottosegretario.


Ricompare nel 1994: lasciata la Dc, torna in Parlamento con il partito di Berlusconi, ex socio d’affari del suo protetto Carboni. E Berlusconi, nel 2001, pur di dargli una poltrona da ministro, inventa il curioso dicastero dell’Attuazione del programma. Quando poi il suo collega di governo Claudio Scajola è costretto alle dimissioni (dopo aver definito Marco Biagi «un rompicoglioni»), Pisanu prende il suo posto: ministro dell’Interno.


I sardi sanno che Beppe Pisanu (originario di Ittiri, Sassari) è sempre stato molto riconoscente con compaesani, amici e parenti che lo hanno sostenuto nella lunga carriera politica. E che tiene molto alla carriera dei figli. Ne ha tre. Gigi fa l’avvocato ed è consigliere di Forza Italia al Comune di Sassari. Angelo è oggi nella segreteria nazionale di Forza Italia, dopo essere stato candidato nel 2005 in Lazio nello (sfortunato) listino di Francesco Storace. Il terzo figlio, Gianmario, è partner della multinazionale della consulenza Accenture. Beppe Pisanu in persona è stato interrogato, l’ottobre scorso, dalla procura di Cagliari: a proposito di un presunto giro di favori nel corso dell’inchiesta sulla maxi-truffa Ranno-Fideuram per corruzione, peculato, truffa e riciclaggio. Il nome di Pisanu padre, che non risulta indagato, è saltato fuori assieme a quello di Pisanu figlio – Angelo – durante l’interrogatorio a Gabriella Ranno, la promotrice finanziaria accusata numero uno dello scandalo: «Il titolare del dicastero dell’Interno si è interessato perché il piano triennale Fideuram andasse a buon fine», ovvero premendo affinché diversi enti regionali accettassero investimenti a tassi favolosi (fino al 20 per cento del capitale speso), in cambio di «incarichi per il cognato, il fratello e il figlio». Nei dettagli, ha raccontato Ranno, «Angelo Pisanu è stato assunto in Fideuram nel 1998, su mia esplicita richiesta. Il fratello e il cognato del ministro, ho poi saputo, sono entrati nel consiglio d’amministrazione del Cis», il Credito industriale sardo, ora confluito in Banca Intesa.


La spartizione dei pani e dei pesci, a detta di Ranno, sarebbe avvenuta a Roma nell’ottobre 1998, prima a casa Pisanu, in un incontro con i figli Angelo e Gigi, poi, la sera, a una cena nel ristorante Il bolognese: «Eravamo io, Andrea Pirastu, Beppe e Annamaria» (Annamaria è la moglie del ministro, già madrina della promotrice finanziaria; Pirastu è l’ex assessore all’Industria). Il tutto alla vigilia della campagna elettorale regionale del 1999, per il cui foraggiamento, secondo le dichiarazioni dell’accusata, «la banca si è avvalsa di fondi che i promotori hanno raccolto in nero e depositato nella nostra sede svizzera di Lugano, da dove poi rientravano in Italia», sotto forma di tangenti «per finanziare Forza Italia».


(Gianni Barbacetto e Barbara Ciolli)


016 Intervista a Mario Portanova de Il Diario sulle società che gestiranno il voto elettronico alle prossime elezioni 24 marzo 2006



        


        

domenica 19 novembre 2006

Piccoli bulli crescono


LA POLEMICA

Piccoli
bulli crescono

con la tv e i videogiochi

di MARIO PIRANI



PER ANTICO vizio, risalente all'era pre-computer, ritaglio dai giornali articoli, pezzi di cronaca, notizie che mi sembra utile conservare, alla luce dei temi di cui mi sto occupando. Sul bullismo giovanile nell'ultimo mese ho solo l'imbarazzo della scelta: "I banditi sono un gruppetto di adolescenti (otto tra i 14 e i 16 anni) che si comportano come criminali incalliti nonostante siano di buona famiglia e abitino in quartieri residenziali come l'Olgiata, ai bordi dei campi da golf della Capitale. In pieno giorno aggrediscono coetanei all'uscita da scuola o da circoli sportivi, coltello alla gola e minacce di morte".


I bottini sono ridicoli: qualche euro, una collanina da pochi soldi, un berretto, persino un pacchetto di caramelle. Evidentemente a loro interessa soprattutto provare il gusto della sopraffazione. Il 23 marzo dopo tre rapine, una Volante della Ps, allertata da un passante, blocca la piccola gang. Quattro gli arrestati che al momento del trasferimento nel carcere giovanile non hanno battuto ciglio. "È impressionante - ha commentato un vecchio poliziotto - sono giovanissimi e incensurati ma si sono comportati come chi entra ed esce abitualmente dal carcere".

Notizie non dissimili da Milano: "Il 17 aprile un ragazzino di 11 anni, con la complicità di altri due piccoli amici a far da palo, è penetrato, dopo la fine delle elezioni, nella scuola media di Rozzano. Quindi si è impadronito nel laboratorio di fisica di un contenitore di alcool, lo ha sparso nei locali e vi ha dato fuoco riuscendo ad incendiare le aule di didattica". Nella scuola di Corbetta, sempre nel Milanese, tre alunni hanno dato fuoco ai registri nella sala dei professori, vuotato gli estintori, aperto tutti i rubinetti dei bagni, dopo aver otturato gli scarichi.




Sulle cause di questo stato di cose si leggono molte analisi, ognuna col suo grano di verità. Quel che però mi lascia perplesso è una specie di rassegnazione di fronte a un fenomeno dipinto quasi come un evento di natura, una mutazione biologica dei giovani d'oggi che li renderebbe geneticamente diversi da quelli di ieri e, quindi, alieni da ogni forma di disciplina imposta, dotati di una aggressività senza freni inibitori, "incapaci di attenzione continuativa oltre i 18 minuti", refrattari alla lettura, ostili a ogni tipo di studio minimamente faticoso e difficile.


Ebbene, non credo che tutto questo, nella misura in cui è avvenuto, sia il portato oggettivo e ineluttabile dei tempi ma il risultato catastrofico di scelte culturali ed educative, nella scuola e nella famiglia, prevalse a cavallo degli anni Settanta e coltivate pervicacemente fino ad oggi col concorso di tutte le culture politiche, in ispecie di sinistra e cattoliche, che hanno contribuito a destrutturare e a delegittimare ogni idea di autorità, disciplina, divieto, punizione, sforzo e fatica nelle generazioni che si sono succedute, con un aggravarsi precipitoso negli ultimi lustri, investendo persino l'infanzia e la prima adolescenza.


Inoltre l'introduzione in cui si sono distinte, ma non solo, le destre economiche e politiche, del concetto di aziendalizzazione ha trasformato anche lo scolaro, a partire dalle elementari, in un "cliente che ha sempre ragione" e da non scontentare. Messa al bando l'accettazione e l'elaborazione della frustrazione, i giovani sono stati allevati dalle famiglie e dalla pedagogia imperante nell'ideologia che nulla è davvero vietato, che le proibizioni eventuali sono puramente simboliche, come simboliche, brevi e, soprattutto, remissibili suonano le punizioni. Cancellato è il senso del limite. Le conseguenze sono catastrofiche.


Un fatto capitatomi recentemente mi fornisce il destro per esemplificare concretamente quanto vado dicendo. Ero andato a trovare una mia amica, madre di uno sveglio e intelligente ragazzino di 9 anni, di nome Albert, che, quando arrivo, stava protestando perché non gli era stato comprato un recente disco per la PlayStation, Grand Theft Auto San Andreas, collegabile alla Tv, di cui "tutta la classe parla, anzi non parla d'altro". La mamma si rifiutava perché aveva subodorato il contenuto violento dell'agognato dischetto. Incuriosito chiesi se poteva farselo prestare per visionarlo.


Nello spazio di 10 minuti, convocato d'imperio, arriva un bimbo, di nome Federico, all'apparenza più piccolo, ordinato e educatissimo. che si scusa gentilmente con me perché poteva rimanere solo mezz'ora. "Dopo debbo andare a catechismo" spiegò. Lì per lì restai deluso dall'informazione e pensai che lo spettacolo non poteva esser tale da terrorizzare spettatori tanto compiti. In effetti il solo terrorizzato dopo mezz'ora di visione sarò io. Sullo schermo televisivo, con effetti tridimensionali e potenzialità interattive, i due ragazzi, al ritmo di una musica rap, si misero a guidare, con un apposito telecomando, personaggi realistici, anche se disegnati al computer, con ceffi e linguaggio da galera, che si muovevano rapidamente con potenti auto, moto ed altri mezzi di locomozione, ed anche a piedi. Lo scenario era quello di una città con vie, case, negozi, luoghi di svago di cui tre gang si contendevano il controllo.


Nella "gara" il punteggio che ogni giocatore raggiunge è determinato dalle "missioni" che compie e viene valutato secondo parametri in cui primeggia il "rispetto" acquisito nell'uso delle armi, nella resistenza ai colpi, nei muscoli (che aumentano o diminuiscono secondo gli esercizi), nel sex appeal, ecc. Le armi variano dal mitragliatore a tre tipi di mitra e di mitraglietta, a due tipi di pistole, a fucili a pompa e a canne mozze, al bazooka, alla motosega, per scendere alla mazza, al coltello, al tirapugni e al manganello dei poliziotti. Le scene, animate dai piccoli giocatori premendo vari pulsanti del telecomando, sono semplicemente orripilanti.

Ecco qualche esempio: una prostituta viene afferrata, caricata sull'auto e sgozzata, il sangue rosso si sparge ovunque; un avversario è inseguito per strade e locali, tagliato in due con la motosega; ad un barista viene fatta saltare la testa con il fucile a pompa; un camion corazzato viene usato per una "missione" di scasso, i cadaveri dei guardiani trucidati finiscono schiacciati più volte sotto le ruote; un'auto parcheggiata appare scossa violentemente: effetto di uno stupro che si consuma al suo interno, previo rapimento della donna. Aggiungo a scopo di documentazione qualche frase del parlato: "Stendi quei coglioni, figli di puttana!", "Fottilo!", "Vuoi spassartela, tesoro?", "Cosa cazzo hai in mente?".


Da quanto mi raccontano ragazzi e genitori la vendita e la diffusione di simili dischetti è diffusissima. Credo, però, sia inutile prendersela coi produttori quando in stato di accusa andrebbero messi i genitori che acquistano e permettono la visione e con chi non ne vieta tout court la diffusione, quale che sia l'età del cliente. In confronto il wrestling (incontri di lotta libera, senza regole, con testate, calci in faccia, colpi proibiti tra giganteschi stuntmen), seguito settimanalmente in Tv da alcuni milioni di ragazzini fra i 7 e i 14 anni, appare uno spettacolo da educande. Anche se l'associazione consumatori Codacons ha sollevato una protesta dopo alcuni casi di imitazione da parte di giovanissimi spettatori finiti all'ospedale (a differenza dei lottatori che riescono ad uscire incolumi dagli scontri).


Elenco qualche riflessione personale.


Primo. L'intrattenimento telematico e televisivo, soprattutto quello interattivo, con contenuti e forme iperrealistiche di violenza estrema, può cancellare nei giovanissimi ogni differenza palpabile tra finzione e realtà.


Secondo. La violenza nelle sue forme peggiori e più aggressive può essere immaginata come un gioco.


Terzo. Nel gioco tutto è permesso.


Quarto. Nessun gioco o spettacolo è proibito.


Queste riflessioni, per essere ben valutate, non andrebbero limitate al tempo libero dei giovani e giovanissimi ma collegate alle modalità permissive di un sistema scolastico che ha praticamente abolito la durezza degli esami, i voti negativi, il rinvio a settembre (sostituiti da port-foli, crediti, debiti e 6 rossi), annullato la certezza e la generalità dei programmi (per una buona parte dell'orario lo studente "sceglie" corsi di personale propensione), le bocciature, le sospensioni (che possono in casi eccezionali venir comminate dopo contenziosi fra le parti e solo per decisione collegiale votata anche dai rappresentanti dei genitori e degli studenti, ecc.), ridotta a zero l'efficacia dissuasiva del voto di condotta.


Una scuola che ha teorizzato la "gradevolezza" dello studio e i "percorsi individuali", le interrogazioni programmate e contrattate a data prefissata, le occupazioni consentite, le assenze a piacimento. Una scuola che invece di rappresentare un periodo di distacco formativo e progressivo dell'adolescente dalla protezione famigliare, ha dato ai genitori un peso preponderante all'interno della scuola, dove sovente si trasformano in avvocati dell'indisciplina e del basso profitto dei figli.


Se, quindi, guardiamo in modo unitario l'universo che viene offerto alle generazioni più giovani, riusciamo a decifrare anche il crescere del bullismo e della delinquenza giovanile, a capire dove risieda il fallimento delle riforme scolastiche, sia di Berlinguer che della Moratti, a considerare l'esigenza di un "ritorno all'ordine" che aiuti i ragazzi di oggi e di domani ad affrontare con consapevolezza responsabile le difficoltà della vita adulta. Ritorno all'ordine non è in questo caso uno slogan reazionario ma un appello alla più elementare virtù civica. La libertà e la democrazia si affermano laddove sono chiari, condivisi, eticamente concepiti i limiti che ogni società e ogni individuo deve porsi e la cui trasgressione comporta una pena commisurata.


Far credere a un bambino o a un adolescente che può far tutto a suo piacimento, che non ha di fronte a sé né divieti né inevitabili frustrazioni, che può "fingere" di uccidere selvaggiamente una donna o un avversario, insultare liberamente - e senza timore - il maestro o il compagno, incendiare l'aula, essere promosso senza studiare, tutto questo ed altro ancora sta devastando la formazione etica, civile e scolastica dei cittadini di domani. Si tratta di capire che quel che è grave non è che una violazione delle regole venga commessa, ma che non ci siano regole, non esista il divieto. Ben diverso è l'infrangerlo ma con la consapevolezza di compiere un'azione proibita.


L'infrazione, in questo caso, è assai meno diseducativa.

Si dirà che nella grande maggioranza dei casi le cose non sono tanto tragiche, che solo una minoranza è deviante da una condotta accettabile, che in molte classi si studia con profitto ed è probabilmente vero. Purtuttavia l'assenza quasi istituzionalizzata di vincoli e divieti facilita l'estendersi dei fenomeni negativi e genera una atmosfera in cui le minoranze più aggressive e turbolente finiscono per imporre i loro codici di comportamento. Infine il bambino, prima, e il ragazzo, poi, adusi a non aver coscienza di un punto limite, saranno spinti a richiedere, ad ottenere e a fare sempre qualcosa in più. Cresceranno con meno frustrazioni ma quando entreranno nella vita più adulta ne sconteranno il prezzo. Altissimo per loro e per la società.


14 maggio 2005


la Repubblica

venerdì 3 novembre 2006

31 anni di vuoto


All’alba del 2 novembre 1975 viene trovato ucciso Pier Paolo Pasolini. La scomparsa prematura di una voce così autorevole resta una delle più grandi tragedie nella storia della cultura italiana. Scriveva Piero Ottone, nell’introduzione ad un’edizione di “Scritti corsari” (Garzanti, 1977) da cui è tratto il pezzo seguente: “Ho parlato di intuizione poetica. Ma Pasolini ha fatto, nei suoi articoli per il Corriere, grande giornalismo. Il giornalista è colui che racconta quel che succede; il grande giornalista è colui che capisce quel che succede. Pasolini capiva e le sue intuizioni indicano che anche il nostro mestiere, nei rari momenti in cui raggiunge le vette più alte, è poesia”.


 


Sfida ai dirigenti della televisione


 


Molti lamentano (in questo frangente dell’austerity) i disagi dovuti alla mancanza di una vita sociale e culturale organizzata fuori dal Centro «cattivo» nelle periferie «buone» (viste con dormitori senza verde, senza servizi, senza autonomia, senza più reali rapporti umani). Lamento retorico. Se infatti ciò di cui nelle periferie si lamenta la mancanza, ci fosse, esso sarebbe comunque organizzato dal Centro. Quello stesso Centro che, in pochi anni, ha distrutto tutte le culture periferiche dalle quali, appunto fino a pochi anni fa, era assicurata una vita propria, sostanzialmente libera, anche alle periferie più povere e addirittura miserabili.


Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica, voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni.


Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè, come dicevo, i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.


L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che «omologava» gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale «omologatore» che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina).


Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?


No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i «figli di papà», i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli.


Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l’hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l’analfabetismo e la rozzezza. I ragazzi sottoproletari umiliati cancellano nella loro carta d’identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di «studente». Naturalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo-borghese, che essi hanno subito acquisito per mimesi). Nel tempo stesso, il ragazzo piccolo-borghese, nell’adeguarsi al modello «televisivo» che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale, diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio «uomo» che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali.


La responsabilità della televisione in tutto questo è enorme. Non certo in quanto «mezzo tecnico», ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.


Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano; il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata bruttata per sempre (...)


 


Pier Paolo Pasolini


Corriere della Sera 9 dicembre 1973


 

giovedì 26 ottobre 2006

Stupro


Il mostro è maschio


di Gigi Riva


Omicidi. Stupri. Violenze brutali. Aumentano in Italia i crimini contro le donne. E cresce la loro ferocia. Sempre più spesso la violenza si consuma in famiglia


Galimberti: l'uomo ha perso la psiche Grafico: i dati regione per regione


Operazione Monitor


 


Silvia Mantovani un colpo era riuscita a pararlo, col palmo della mano. Aveva anche cercato di buttarsi verso il lato del passeggero, ma era stata incastrata dalla cintura di sicurezza che diligentemente indossava. All'assassino aveva infatti abbassato il finestrino, lato guida. Perché l'assassino lo conosceva. Si chiama Aldo Cagna, 28 anni, suo coetaneo, ed era, fino a quattro anni prima, il suo fidanzato. Lo aveva anche denunciato per lesioni, in passato, perché l'aveva picchiata durante una festa. Quella sera, la sera del 12 settembre, l'ultima sera per Silvia, lui l'aspetta all'uscita della Columbus di Martorano (Parma) dove la ragazza lavora per mantenersi gli studi in medicina. Silvia entra nella sua Dedra grigia, lui la rincorre con la sua Panda, la sperona, la costringe a fermarsi. Scende si avvicina, Silvia abbassa il finestrino come per dirgli di farla finita... Dieci colpi di coltello tra volto e torace, uno mortale al cuore. Una furia che si placa solo quando il corpo di lei si affloscia. Aldo fugge, vaga nella campagna finché lo trova la polizia. Stella Palermo, 25 anni, di Albenga (Savona) si sentiva sicura nella sua casa in zona residenziale. C'era anche la mamma la sera del 4 luglio scorso quando Fabio D'Errico, 32 anni, contitolare di una piccola azienda di riparazioni di computer, si è presentato per l'ennesimo "chiarimento". I familiari di lei lo avevano diffidato dall'avvicinarsi, gli avevano chiesto di stare alla larga: facilmente trascende durante i litigi. Ed ecco l'ultima discussione, lui che prende il taglierino e, sotto gli occhi della madre, colpisce Stella a ripetizione al collo, prima di fuggire. Lo troveranno a Torino vicino alla casa del padre.


Norma Rado Mazzotti, 63 anni, stava spiegando a Primo Destro, 68 anni, che non ne voleva più sapere di lui, domenica 8 ottobre. Stavano in macchina nella campagna di Massanzago (Padova). Non c'era ragione che Primo volesse sentire: ha estratto un coltello, l'ha colpita, solo ferita. Lei perdeva sangue, ma riusciva a correre. Lui è sceso, l'ha raggiunta e ha affondato l'arma per 20 volte. Ha gettato il coltello nel torrente Muson. Ha guidato fino alla stazione dei carabinieri, si è pettinato i capelli bianchi e al militare in guardiola ha detto: "Ho ammazzato una donna. Volevo suicidarmi, ma lei si è messa a gridare e ho perso la testa".


Emilia, Veneto, Liguria. Solo tre fra gli ultimi esempi di accanimento sulle donne. Se la percezione collettiva di un fenomeno in crescita allarmante ha bisogno delle cifre, eccole. Nel 2005 sono state 138 le donne ammazzate in famiglia, dieci in più del 2004 (fonte Eures, Archivio degli omicidi dolosi in Italia, dato provvisorio in attesa della pubblicazione a fine novembre del 'Rapporto' definitivo). Delle 10 mila chiamate giunte da gennaio 2006 al Telefono rosa, ben 1.800 sono partite per segnalare maltrattamenti, contro le 1.270 dell'intero 2005, quando le violenze carnali denunciate furono nove contro le 26 dei primi nove mesi dell'anno in corso. Per uscire dalla Penisola, l'Onu ha appena pubblicato i risultati di un gigantesco studio dal quale risulta che una donna su tre in tutto il mondo, all'ingrosso un miliardo, subisce vessazioni, soprusi, mutilazioni o stupri. Se si è femmina, in una percentuale che va dal 40 al 70 per cento dei casi, si è destinati a morire per mani del marito o dell'amante. Ed è la prima causa di decesso, più del cancro o di qualsivoglia malattia.


In Italia l'estate che se ne è appena andata ha avuto, sul tema, quotidianamente, il suo mattinale da questura. La presidente del Telefono rosa, Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, applaude all'idea del governo di affrontare, subito, in consiglio dei ministri, la revisione della legge sullo stalking (le molestie e i pedinamenti) con pene più severe, perché la condizione generale è ormai quella di tentare di evitare delle morti annunciate. Mai prima d'ora, e ha vent'anni di attività alle spalle, la Casa delle donne maltrattate di Milano si era trovata costretta a coniare uno slogan tanto estremo: 'Le vorremmo libere e felici, ma prima di tutto vive'. La presidente Marisa Guarneri, nel suo ufficio di via Piacenza 14, riflette come se tracciasse il bilancio del suo intero arco professionale: "Cosa è cambiato da quando iniziammo a metà degli anni Ottanta? È aumentata, e di molto, la ferocia. Si sono accorciati i tempi: all'omicidio si arriva assai più rapidamente". E c'è un nesso, probabile, col fatto che anche le vittime si stancano prima di prendere botte, quattro, cinque anni contro i decenni di un tempo. Più in fretta decidono di andarsene ed ecco la fase delicata quella quando più facilmente compaiono la pistola, il coltello, un semplice martello. La Guarneri e la sua vice, Tiziana Catalano, quasi si arrabbiano quando si azzarda la possibilità che certe percentuali siano drogate da una presenza sul nostro suolo più massiccia di donne extracomunitarie. È il riflesso condizionato dalla storia di Hina e del padre pachistano nell'opulenta Brescia. Società patriarcali? Culture diverse? Ma via. Ha un sorriso amaro e sarcastico la Catalano quando sottolinea che, nelle loro case protette, oggi ci stanno solo italiane.


E se va preso con le pinze il sommerso delle botte per la duplice difficoltà a denunciare e raccogliere dati, l'emerso, cioè ciò che non è occultabile socialmente come l'omicidio, è eloquente. Dei 138 omicidi domestici del 2005, 63 sono stati commessi nel Nord dell'agiatezza economica e vicino all'Europa, 28 nel Centro e 47 tra Sud e Isole. L'indipendenza, e l'autonomia della donna fanno paura all'uomo-padrone. Non è una questione di latitudine, tantomeno di classi. In Sardegna si sta seguendo un caso, lui magistrato, lei avvocato, persone che hanno dimestichezza con la legge. Lui ha cominciato a pedinarla, poi ha manifestato gelosia per i colleghi di studio. Prima verbalmente, poi con pugni e calci. Un punteruolo avvicinato alla gola ha fatto scattare la denuncia.


L'autore della violenza (analisi Ipsos 2005) in Italia è il marito o il convivente nell'85 per cento dei casi. Violenti ci sono anche tra i giovani. A Monza lei e lui ci sono andati ad abitare dopo essersi conosciuti in facoltà. Laureati entrambi, conviventi. Solo che lui ha preteso di essere il solo a lavorare. E prima di uscire il mattino la chiudeva in casa e di sera la menava solo se riceveva una telefonata. È andata avanti così per tre anni, finché lei ha sfondato la porta.

Le migliaia di storie raccolte nella novantina di centri antiviolenza sparsi in Italia (secondo un rapporto Istat del 2004 sono 520 mila le donne tra i 14 e i 59 anni che nel corso della loro vita hanno subito almeno una violenza tentata o consumata), si assomigliano. Potrebbero sembrare fotocopie in cui cambiano solo i dati anagrafici. Vengono raccontate col terrore negli occhi. A Firenze un giorno si è presentata ai servizi sociali una ragazza stracciata e ammaccata. La sera prima un amico del fidanzato, di professione bodyguard, si era offerto di riaccompagnarla a casa. Ha frenato in una via a ridosso del centro e l'ha costretta, con le mani legate, sul cofano della vettura, a subire uno stupro. Nelle vicinanze di Roma il branco ha infierito su una poco più che adolescente. Al pronto soccorso dove si è presentata persino i dottori che, per professione, tante ne vedono, si sono messi le mani nei capelli. Non bastasse, gli autori della violenza hanno continuato a minacciare la loro vittima di peggio nel caso avesse reso pubblica la vicenda. Lo ha fatto, ora sta in una casa protetta.


La denuncia aumenta la ferocia, dice l'esperienza. Alla Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, Elena De Concini racconta di persone costrette a sfruttare l'occasione della spesa per infilarsi, di nascosto, nella sede sotto i portici e parlare. E chi si decide, finalmente, è perché è scattato un clic. Di solito coincide con le botte che dalla donna, si sono trasferite sui figli: "Molte confessano: finché picchiava me potevo sopportare, ma mi sono rivolta a voi quando ha cominciato coi bambini".

Telefono rosa ha provato a stabilire un profilo delle vittime. Coniugate o conviventi (59,2 per cento) ma con un significativo incremento delle divorziate. Età compresa tra i 35 e i 54 anni (60,8), laureate nel 13,9 per cento. Le casalinghe sono la categoria più rappresentata (24,7), seguite dalle disoccupate (14,9). Vanno poco dall'avvocato (7,2) mentre è in crescita il numero di chi si rivolge alle forze dell'ordine (11,2). Quanto all'autore della violenza, ha pure in maggioranza tra i 35 e i 54 anni (60,7), è laureato (16,7), fa l'impiegato (21,4), l'operaio (14,4) o il libero professionista (10,5). Meno i pensionati (8,7) o i disoccupati (7,9). Di norma non si droga e non beve. Dubita invece che si possa tracciare un identikit del potenziale killer la professoressa Anna Baldry, psicologa e criminologa, docente di Psicologia sociale a Napoli e in procinto di organizzare a Caserta, l'11 novembre, un convegno sui diritti delle vittime: "Sarebbe rassicurante definire un prototipo, sapremmo come agire. In realtà i rischi mutano non solo perché ogni caso è diverso, ma all'interno dello stesso caso ci sono tempi e momenti diversi".


La Baldry ha appena dato alle stampe un libro ('Dai maltrattamenti all'omicidio', Franco Angeli), in cui si prova a tracciare un recinto e offre una metodologia utile per prevenire la recidiva e l'escalation della violenza. Elenca i dieci fattori di rischio e descrive i formulari per la sua valutazione. Quanto di più scientifico, insomma, c'è a disposizione, ma su un terreno scivoloso in cui si devono valutare troppe variabili indipendenti. Riassume la studiosa: "L'uomo che usa violenza non è un 'violento per natura'. Il suo non è un destino ineluttabile. Con i maltrattamenti, nella maggior parte dei casi siamo di fronte a situazioni di apparente normalità, dove chi agisce la violenza sceglie di farlo e così come sceglie di agirla può decidere se e quando non usarla più". Almeno nel 30-40 per cento dei casi di uxoricidio da lei studiati nella vita, la possibilità che fossero consumati era insospettabile dall'esterno. Alla base delle botte, delle lame e delle pallottole c'è un retaggio antico, sopravvissuto purtroppo nell'Italia del 2000: "C'è", chiosa, "la volontà di poter controllare, fin nei minimi dettagli, la vita di un'altra persona. Di punirla per essersi sottratta".


In Italia sono 250 al giorno le donne che vengono aggredite dal loro partner o dal loro ex partner. Nel tempo che avete impiegato a leggere questo articolo è successo, da qualche parte, almeno due volte.


 


Operazione Monitor


Certo che c'è una emergenza stupri, come c'è un'emergenza per la violenza domestica e per le molestie persecutorie. Lo crede appassionatamente Barbara Pollastrini, la ministra delle Pari opportunità, convinta che l'attacco ai diritti umani delle donne, in particolare in Italia, è la grande questione rimossa di questo inizio secolo.

È decisamente duro il compito che Pollastrini si trova davanti, in un piccolo ministero senza portafoglio (ma lei promette di battersi per farglielo ottenere, come in altri paesi europei), e con un insieme di leggi che spesso non sono in grado di rendere giustizia alle vittime delle violenze né tantomeno di proteggerle.

Parte da qui la scelta di creare anche in Italia un Osservatorio sulla violenza alle donne, che dovrebbe prendere il via subito dopo il varo della Finanziaria. Oltre a monitorare ragioni e modalità di un fenomeno finora pochissimo indagato e a promuovere una campagna d'informazione, a partire dalle scuole, "che arrivi a toccare la coscienza maschile", avrà il compito importantissimo di dare sostegno e visibilità alla rete dei 110 centri antiviolenza che già esistono. Ma anche polizia e carabinieri dovranno attivarsi, creando nuclei specializzati a cui una donna minacciata potrà chiede aiuto (varie vittime dei delitti più recenti l'avevano fatto inutilmente). E intanto, nei pronto soccorso degli ospedali, ci saranno alcuni medici collegati con la forza pubblica.


"Ma è anche sul terreno delle leggi che è indispensabile muoversi", sostiene la ministra Pollastrini, "perché se si deve fare l'impossibile per prevenire, bisogna anche avere gli strumenti per reprimere". Ed ecco in arrivo un disegno di legge, steso con i ministeri della Giustizia e degli Interni, che trasforma le molestie, per cui oggi è prevista solo una multa, nel reato di stalking, di persecuzioni violente (fino a quattro anni). E che lavora sulla riduzione delle attenuanti nei processi




per stupro. "Inutile scandalizzarsi, qualcosa deve cambiare", dice Pollastrini. "Sono troppi gli stupratori in libertà che abbiamo visto finora". Ch. V.


 


L'uomo ha perso la psiche


di Chiara Valentini


Persone ansiose. Incapaci di vivere le emozioni. E dunque violenti. Parola di psicoanalista.  Colloquio con Umberto Galimberti



Uno specialista dell'anima potrebbe essere definito Umberto Galimberti, il filosofo morale capace di entrare nella psiche e nei sentimenti di uomini e donne di oggi, come ha fatto ne 'Le cose dell'amore' (Feltrinelli). Ma Galimberti è anche un acuto psicoanalista di scuola junghiana, che registra giorno dopo giorno gli slittamenti di un'identità maschile sempre più incerta e perturbata, alle prese con donne che non sono più quelle di una volta e sfuggono alle vecchie regole del possesso. Riflettendo sulla guerra strisciante che ha le sue manifestazioni estreme nella violenza domestica e nella moltiplicazione degli stupri, Galimberti cerca di metter ordine nel panorama disastrato che sta emergendo. E ci ricorda che solo una lunga e paziente rieducazione sentimentale potrà riportare un'accettabile convivenza fra i sessi.

Violenze e maltrattamenti delle proprie compagne, minacce, comportamenti persecutori, che nei casi più gravi possono sfociare nell'omicidio. Professor Galimberti, che cosa sta succedendo nella testa degli uomini?

"Partiamo da un primo punto che a me sembra incontestabile, negli ultimi trent'anni c'è stato un progressivo degrado delle capacità psichiche dei maschi. I loro fattori ansiogeni sono proiettati in gran parte all'esterno, sull'autoaffermazione sociale, sul raggiungimento di obiettivi materiali, che peraltro sembrano nascondere una sorta di angoscia sulla propria identità. Paradossalmente è come se i giovani in particolare non avessero più una psiche. Anche quando vengono in analisi non è per indagare se stessi, ma per risolvere un problema specifico. Ormai è più facile analizzare un sessantenne che un trentenne".


E perché questo degrado psichico, come lei lo definisce, può tradursi in violenza contro la donna che ti sta vicino?


"Oggi il gesto è sempre più un sostituto della parola. Quando non riusciamo a dare un nome alle nostre emozioni, quando perdiamo la capacità di guardare dentro noi stessi è come se si rompesse il meccanismo di elaborazione dei nostri disagi. È un deficit non solo culturale, ma psichico. Un apparato emotivo che non ce la fa a verbalizzarsi scivola più facilmente nel gesto violento, unica forma espressiva che riesce a manifestare".


Eppure non si è mai parlato tanto come in questi anni di parità fra uomini e donne, di condivisione. Tutte parole al vento?


"Non si tiene abbastanza conto della disumanizzazione che l'età della tecnica ha portato nel mondo del lavoro. C'è un'accelerazione sempre più forte verso regole di efficienza spasmodica, di competitività che chiedono alle persone di soffocare ogni emozione, di comprimere se stesse, di essere anaffettive e produttive in ogni istante della vita lavorativa. Ma questo provoca una scissione radicale nei confronti del privato, della vita familiare. Se fuori puoi essere solo perfetto e controllato, è a casa, è nei rapporti con la tua compagna che scarichi rabbie e frustrazioni. La famiglia diventa il luogo della massima violenza, la cloaca delle emozioni trattenute. Gli appartamenti sono luoghi appartati, dove può succedere qualunque cosa. Come raccontano le cronache".


Però anche le donne, negli ultimi trent'anni, sono entrate in massa nel mondo del lavoro. Perché allora sono quasi solo gli uomini a esercitare la violenza?

"Sono convinto che le più grandi rivoluzioni della storia hanno a che fare l'emancipazione femminile. D'altra parte la donna era tenuta sottomessa da sempre proprio perché se ne temeva il potere. Ma anche le donne di oggi, se si esclude l'élite di quelle in carriera che imitano modelli maschili, mi sembrano molto meno integrate dei maschi, capaci di esprimere ancora se stesse, le proprie complessità. E questo spaventa in modo crescente gli uomini".


Dietro questa aggressività, che almeno in Italia si comincia ad analizzare solo adesso, si può immaginare anche la paura dei maschi per le nuove libertà femminili?

"Non credo che questa libertà sia ancora pienamente acquisita, almeno sul piano della psiche. Ma gli uomini lo pensano, avvertono che stanno perdendo quella situazione tranquillizzante che era il possesso. Non possono più dire 'la mia donna' con quel tono speciale, non possono impedirle di andarsene per il mondo, di incontrare tanti altri uomini, tanti potenziali rivali che lo fanno sentire precario. Lo spiega bene Proust, quando ne 'La prigioniera' dice che avere a disposizione Albertine in casa non gli dà particolari gioie, se non quella di sottrarla agli altri".


Insomma, la scomparsa dell'amore come possesso può scatenare per una parte degli uomini l'amore come ossessione, spingerli a varie forme di maltrattamenti per sottomettere le compagne fino ad annientarne la volontà?

"Sì, è possibile, anche perché l'amore è concepito sempre meno come relazione con l'altro e sempre più come conferma della propria identità. Se perdo la donna che ho conquistato, se perdo quel valore di mercato che è la sua bellezza, perdo valore io stesso. Questo apre le porte alla violenza".


Abbiamo assistito in Spagna a un processo per violenza domestica: una donna con la testa fasciata è arrivata in aula mano nella mano con l'uomo che gliel'aveva rotta. "Non è cattivo, non lo rifarà più, non voglio che lo condanniate", ha detto. Perché questa dipendenza psicologica è frequente nelle donne maltrattate?

"È lo stesso meccanismo dei bambini, che difendono sempre la madre maltrattatrice, perché hanno paura di perderla. Anche molte donne non vogliono perdere il loro compagno. Temono la solitudine, la riprovazione sociale, la miseria economica. Sperano di riuscire a cambiarlo. Ma purtroppo si sbagliano, questa è una strada senza ritorno".


Intanto lo stupro è in crescita, o almeno ne aumentano le denunce, che sono addirittura triplicate. Specie nelle grandi città le donne possono essere violentate anche in pieno giorno per la strada. Ma molto più spesso, dicono le statistiche, succede in casa, ad opera di amici, fidanzati, mariti o ex.

"Siamo in un'epoca dove la sessualità è eccessivamente esibita dalla pubblicità, dai giornali, dalla tv dove anche un ragazzino ha libero accesso alle linee erotiche, ai film porno. Questa esibizione richiederebbe una maturità che non c'è. È caduto un tabù che invece era importante, che faceva sentire la conquista di una donna come una meta da raggiungere poco a poco, con le telefonate, con il corteggiamento. Ma se tutto è possibile subito, come suggeriscono i messaggi mediatici, se non c'è più educazione emotiva che faccia crescere la psiche, può scattare il gesto. O lei dice subito sì o me la prendo, anche con la forza".


Insomma, vede avanzare una moltitudine di 'analfabeti emotivi', per usare una sua definizione, incapaci di tenere a freno le proprie pulsioni?

"C'è questo rischio. Ma alla radice delle aggressioni sessuali c'è anche un fraintendimento. Oggi le ragazze si declinano attraverso l'ostentazione del corpo, le pance seminude, i seni e le gambe scoperte. La bellezza esibita è il loro biglietto da visita. Non è un'offerta, è un'esibizione narcisistica, come quella delle modelle. Ma i maschi la sentono come un invito".


A parte il fatto che spesso le violentate erano vestite come collegiali, non crede che le donne abbiano diritto a essere rispettate, qualunque sia l'abbigliamento che scelgono?

"Non incolpo le ragazze che si scoprono, ma i maschi che fraintendono. L'atto dello stupro è l'assenza di qualunque elaborazione psichica, è l'impossibilità della relazione con la donna".


Molti suggeriscono l'innalzamento delle pene, i leghisti vorrebbero la castrazione chimica. Secondo lei cosa si può fare per interrompere questo catalogo di orrori?

"Se la Lega dice 'castrare' io rispondo 'educare'. Anche alzare le pene serve a poco, quel che bisogna alzare è il livello culturale, a cominciare dai più emarginati, dagli immigrati. Se penso alla loro situazione, senza soldi, senza donne, in un paese che ostenta il sesso in questo modo, mi viene da dire che quel che succede è inevitabile. Ogni stupro, ogni violenza, chiunque sia a commetterli, è il fallimento dei processi educativi, è non aver insegnato a considerare l'altro come persona e non come cosa. La più bella definizione dell'amore l'ho trovata in Sant'Agostino: 'Volo ut sis', voglio che tu sia quello che sei, riconosco la tua alterità. È da qui che bisogna ripartire".


 


Modello Zapatero


di Emanuele Giusto


 


Varata all'unanimità dal Parlamento spagnolo nel dicembre 2004, la 'legge contro la violenza di genere' vuole combattere la violenza domestica come segno

della discriminazione che l'uomo esercita sulla donna nell'ambito delle relazioni affettive. La legge ha previsto la creazione di misure di assistenza, preventive, giuridiche ed economiche. Circa 80 miliardi di euro sono stati destinati all'avvio del progetto. Oggi in Spagna 430 tribunali speciali si occupano di violenza di genere, 20 dei quali sono stati creati ad hoc solo per questo genere di cause ed entro fine anno dovrebbero salire a 30. La sentenza penale è rapida, arriva al massimo in un mese, ispirata dalla 'discriminazione positiva', che prevede pene più dure se il maltrattatore è un uomo. Una donna che denuncia il suo compagno, in 72 ore può ottenere la custodia dei figli e può essere spiccato l'ordine di allontanamento dell'aggressore. La vittima ha diritto a essere alloggiata in case di accoglienza e viene assistita psicologicamente e legalmente. Sono anche previste misure per il reinserimento nel campo lavorativo e se necessario si aiuta la donna a cambiare residenza, città o regione. Tra le varie misure di sicurezza sono anche stati distribuiti alle donne giudicate in pericolo 4.500 cellulari con un pulsante d'allarme con cui, in caso di aggressione, si lancia un Sos che viene raccolto da uno dei 1.200 agenti specializzati in violenza sulle donne.


I dati raccolti in questo anno e mezzo di attività della legge costituiscono la base per le prime stime. Secondo il 'Registro centrale per la protezione delle vittime di violenza domestica', circa 200 mila spagnoli sono dei 'maltrattatori'. Dal 2004 a oggi si sono registrati 90 mila ordini di protezione, 70 mila condanne, 203 mila vittime di maltrattamenti. Malgrado le misure adottate, le 58 donne vittime della violenza domestica nel 2006 rappresentano un dato preoccupante e ancora provvisorio. Probabilmente nei prossimi mesi verrà superata la cifra di 72 omicidi raggiunta nel 2005.


Fonte. L'espresso