mercoledì 27 settembre 2006

Lo stupro che non c'era


Alice nel paese delle atrocità


Lidia Ravera


l’Unità  -  23 settembre 2006


 


Immigrato marocchino violenta dodicenne bolognese. Titoli, commenti, fiaccolate. Giù le mani dalle nostre bambine. Rinforziamo la polizia, cacciamo gli stranieri allupati, eviriamoli, insegniamo difesa personale nelle scuole, al posto della ginnastica, armiamo le nostre figlie, che l’Invicta produca zaini con la mitraglietta incorporata.


È scattata subito la reazione prevista, quando una ragazzina dalle idee confuse, forse sciocchina, forse semplicemente sovraesposta al veleno catodico (ah, gli sceneggiati pullulanti di vittime troppo graziose, eroicamente decise a denunciare il cattivo!), ha accusato di violenza carnale un ragazzo marocchino di vent’anni. Uno incrociato per strada, uno che nemmeno l’aveva guardata. Uno che, come unica col­pa, aveva quella di indos­sare una maglietta di Dol­ce e Gabbana (ah, l'imitazione della cosa griffata, quante vitti­me miete fra la popolazione più indifesa).


Peccato che non fosse vero nien­te, né il colpevole, né la colpa. Nel clima avvelenato in cui ci muoviamo incerti e timorosi, quando perfino il discorso di un Papa in un'università innesca una scarica di minacce e bordate di odio fra i popoli, un marocchi­no musulmano e stupratore, ve­niva proprio utile, per esacerbare gli animi e infiammare la caccia all'infedele. Peccato che tutto si sia sgonfiato, con la confessione di una bambina. Non c'è stato de­litto, c'è stata una marachella, una monelleria innocente. Segui­ta da una bugia colpevole. La dodicenne di Bologna (chia­miamola Alice, Alice nel paese delle atrocità), la dodicenne Ali­ce, si scambiava dei baci con il suo fidanzatino (così presto? Beh, nel mercato delle poppe esposte, smetti di far giocare Barbie al posto tuo prima di uscire dall'età pediatrica), le amiche l'hanno vista, lì, sulla panchina, intenta a fare le cose dei grandi. Probabilmente sono scappate via ridacchiando, le amiche. Alice si è spaventata: e se vanno a dirlo a mia madre? E se mia madre si ar­rabbia? E se non mi fa più uscire?


Meglio se le dico che ho incontra­to il lupo. Meglio se divento vitti­ma. Le vittime sono sempre buo­ne. Basta trovare un lupo cattivo. Eccolo, guardalo qua, proprio sul­la mia strada, è nero e ha una ma­glietta di Dolce e Gabbana. La descrizione non poteva essere più efficace. Il giovane marocchi­no è stato prelevato alle cinque di pomeriggio,è stato accusato di aver usato violenza a una bambi­na, è stato portato in questura e lì è rimasto fino alle quattro e mezza del mattino. Come l'avranno trattato? Con rispetto o con brutalità? È un lavoratore immigrato con regolare permesso di soggiorno. È una brava per­sona. Non ha neppure espresso il desiderio di prendere a ceffoni la nostra Alice.


Ha detto soltanto: se la incontras­si le chiederei perché, perché ha accusato proprio me, di una cosa così brutta. È una domanda a cui non è semplice rispondere. Pri­ma di Alice un'altra ragazzina, cinque anni fa, ha accusato un ragazzo dell'est, un albanese, di aver commesso un crimine orri­bile. Si chiamava Erika, la ragaz­zina, aveva 16 anni. Ha accusato e riconosciuto in fotografia un ra­gazzo di 17 anni che non aveva mai conosciuto. Ha detto di averlo visto uccidere sua madre e suo fratello. Invece era stata lei, con la complicità del fidanzatino, a compiere quella mattanza. Ha coperto la sua colpa (quelle centoventi coltellate) cercando di incastrare un cattivo verosimile, santificato dall'opinione comu­ne razzista. L'extracomunitario, quello che non è della nostra co­munità, e quindi può farsi carico della violenza di cui ci vogliamo liberare. È un lavoro sporco, è be­ne che lo facciano loro. Come raccolgono dalla terra i nostri pomodori, costruiscono le nostre case, puliscono il sedere ai nostri vecchi.


Che cosa hanno in comune la sciocchina Alice di oggi e la per­versa Erika di cinque fa? La debo­lezza. La fragilità psichica di chi non sa ancora discernere fra real­tà e finzione, giusto e sbagliato, vero e verosimile. L'adolescenza è sensibile come l'ago di un si­smografo. Registra ogni sommo­vimento sotterraneo della socie­tà. Lo amplifica. Se ne fa portato­re. Che società è una società in cui una ragazzina si inventa di es­sere stata stuprata perché la mamma non la sgridi? Perché una bugia così grossa, ma, soprat­tutto, così appetibile per i me­dia? Che cosa c'è dietro? Voglia di protagonismo? O forse, addi­rittura, il desiderio inconscio di rendersi interessanti agli occhi dei grandi, diventare un caso, fi­nire sui giornali, o sull'onnipre­sente teleschermo, magari inter­vistate dalla Maria De Filippi di turno?


Alice è alle prese con uno dei mo­menti più delicati della vita di un essere umano: deve sgusciare fuori dall'infanzia, passare per il limbo della pubertà, e poi diven­tare adulta. Spero che la sua atro­ce marachella venga dimentica­ta in fretta. Che nessuno parli più di lei. E che sua madre abbia la forza di spiegarle che anche quelli che vengono dal Marocco sono persone. Non sono, come il Babàu, come l'Uomo Nero del Sacco, funzioni narrative, buone per le fiabe per bambini.


Sono essere umani. Come lei, come il suo fidanzatino. E vanno rispettati.


 


 


La bambina e il marocchino


Mariuccia Ciotta


il manifesto  -  23 settembre 2006


 


Un ragazzo di vent'anni e una bambina di dodici. Lui è marocchino, lei è «bella, bellissima», come le candidate di Miss Italia, ed è «la sua unica colpa» urla la madre alla stampa: «Fanno schifo, fanno schifo, sono dei mostri». Come potrà vivere la sua vita dopo l'orrenda violenza subita? Esterno giorno, lo scenario è un parco pubblico di Anzola Emilia, vicino Bologna, il «branco» attende la vittima, lo stupratore «extracomunitario» indossa una t-shirt nera Dolce&Gabbana. Sarà subito fermato e accusato di stupro aggravato. Non manca niente per far credere agli adulti che tutto sia vero, per farlo credere ai giornali, alla tv, ai poliziotti. Va «in onda» il remake di una storia già sentita, già vista che si rincorre sulle pagine dei quotidiani e sul piccolo schermo. Il codice è sempre lo stesso: «dietro un cespuglio», «nel parco», «gli amici guardano», «nessuno chiama aiuto», «marocchino»... e il linguaggio del cronista serve da «testimone». L'archivio delle parole-chiave corre a sostenere la storia della bambina stuprata con il più suggestivo dei racconti «in diretta». Ecco la «piccola vittima» umiliata, seviziata, il mostro estrae la lametta, le rasa il pube, gli altri ridono... Flash-back di altri casi analoghi, dove spuntano maghrebini da tutte le parti. Non è difficile dire una bugia quando tutti sono pronti a credere. La dodicenne ha inventato tutto, lo ha confessato ieri al procuratore capo, e lo ha fatto per la vergogna che la madre venisse a sapere che era stata vista dagli amici in atteggiamenti intimi con il suo boy-friend. Nessuno stupro. La bambina imbrogliona, che ha accusato ingiustamente il ragazzo del Marocco, ha fatta sua una violenza che avvelena l'aria, e che la rende vittima due volte. L'abuso maschile, che imperversa nelle case e per le strade, per essere «vero» doveva portare il marchio dell'immigrato. Il «marocchino», liberato ieri, dopo la confessione, ha dichiarato «se vedessi quella ragazzina le farei solo una domanda: perché hai detto che sono stato io?». Perché chi altro è considerato un subumano, uno senza nome, un «clandestino», un pericolo reale e immaginario?


 


 


 


Il meccanismo pericoloso


Michele Serra


la Repubblica  -  23 settembre 2006


 


A Bologna si dice “marocchino”, da generazioni, per indicare chiunque provenga da Roma in giù. Non è neanche razzismo: è quel pigro e comodo liquidare gli altri come una grande unica tribù di seccatori. Chissà che non sia anche questa spensierata rozzezza ad avere orientato una ragazzina di Anzola Emilia, a pochi chilometri dalle Due Torri, nell’atroce accusa di stupro collettivo, in pieno giorno.


Un'accusa rivolta a un impre­cisato "branco" di immigrati il cui capo sarebbe stato, ap­punto, un ventenne marocchino. A dodici anni, tanti ne ha la ragazzina, non è mai del tutto chiaro che cosa salti in mente. Fatto sta che il giorno dopo (ma il sospetto, forte, c'era an­che il giorno prima) si è scoperto che non era vero niente. Che lo spaven­to, privato e sociale, per questa vol­ta era stato inutile, era stato a vuoto: Cappuccetto Rosso non aveva in­contrato il Lupo, e la favola nera era appunto soltanto una favola. Tutto benissimo, dunque, con grandi so­spiri di sollievo e un severo rabbuffo alla piccola cacciaballe, mitigato dalla contentezza di saperla incolume.


Peccato che, nel breve lasso di tempo intercorso tra la denuncia di stupro e la scoperta della clamorosa bugia, sia accaduto qualcosa di alta­mente penoso. Alcuni quotidiani hanno sbattuto in prima pagina l'orrenda fola raccontata dalla bim­ba, e lo hanno fatto senza nessuna, dico nessuna premura di un riscon­tro o di un dubbio. "Dodicenne vio­lentata dagli immigrati", così, pro­prio così. Così nelle edicole e nelle rassegne stampa dei telegiornali del mattino, così nel passaparola nei bar di mezza Italia. Così nella percezione sempre più alterata, emotiva, pericolosa che molte persone han­no della questione degli immigrati.


Ora: che una ragazzina di paese possa inventarsi una violenza ses­suale subita da non meglio precisa­ti "immigrati", rientra nelle sciocchezze madornali che si fanno (an­che se non si dovrebbero fare) in quell'età tenera e inquietante. Ma che, sul palcoscenico organizzato dai media e dunque dagli adulti, quella scenetta sia amplificata esat­tamente come l'ha inventata la teen-ager, con "gli immigrati" inte­si come un solo indistinto magma di malvagi, è una cosa parecchio di­sgustosa. Indice, nel migliore dei casi (dico nel migliore) di cinica speculazione politica, nel peggiore di un degrado culturale, e di una afasia etica, giunti al punto di far coin­cidere una condizione umana (l'immigrato) e la predisposizione al crimine. Puro razzismo, in senso tecnico: tu non sei quello che fai, tu sei quello che dicono la tua anagrafe, la tua nazionalità, la tua "razza".


Di crimini veri, naturalmente, persone immigrate (non "gli immi­grati", persone immigrate, e non è davvero la stessa cosa) ne hanno commessi, e ne commetteranno. Specie nello sgradevole comparto dei reati sessuali, laddove l'impatto con l'apparente "disponibilità" del­le donne in una società meno inibi­ta come la nostra, genera facilmen­te odiosi equivoci, e scorciatoie vio­lente, negli stranieri appena arriva­ti. Ma proprio perché il problema esiste, brandirlo come una clava equivale a trasformarlo in uno spauracchio utile solo a fare freme­re di orrore il proprio pubblico pagante, e votante. Che è il contrario di affrontarlo e dunque il contrario di provare a risolverlo.


Proprio nei giorni scorsi, del re­sto, è circolata una notizia di crona­ca secondo la quale un italiano co­niugato, avendo dimenticato il por­tafogli a casa dell'amante, per giu­stificarsi con la moglie ha detto che glielo aveva rubato "un immigrato" (e chi, se no?). Ed è, questo, l'aspet­to barzellettistico (ma non meno in­degno, nella sostanza) di un vezzo, o di una paranoia, piuttosto diffusi: Erika e Omar dissero che erano sta­ti "albanesi" a sgozzare le loro vitti­me, servendosi del capro espiatorio già allora più comodo, e credibile per una società spaventata e male informata. E a Brescia, pochi giorni fa, un regolamento di conti per affa­ri loschi di malavita italiana ha ad­dirittura scatenato sit-in di strada contro "gli immigrati criminali". E chissà se la verità, arrivata a raddrizzare la schiena alla calunnia razzi­sta, è bastata a suggerire prudenza, a portare ragione. O se la verità, quando ridimensiona il panico, vie­ne invece respinta perché arriva ad alterare un meccanismo prezioso, quello del capro espiatorio. Prezio­so per un largo pezzo di opinione pubblica, che del disordine e del cri­mine ha la comprensibile premura di liberarsi, ma preferisce farlo a qualunque costo, ritenendo "gli immigrati" la fonte di ogni male. E pre­zioso per pezzi di politica e di infor­mazione che ci speculano sopra.


La vocazione "pedagogica" dei media ha fatto il suo tempo, dicono. Peccato sia stata rimpiazzata, la pe­dagogia, dalla demagogia: si tende a scrivere solo quello che il lettore ha voglia di sentirsi dire. Anche se quello che ha voglia di sentirsi dire è pura menzogna.


 


sabato 23 settembre 2006

Atto di una condanna a morte

Articolo pubblicato da "Il Mattino" del 10 giugno 1985 che decretò la condanna a morte di Giancarlo Siani


 


Potrebbe cambiare la geografia della camorra dopo l'arresto del super latitante Valentino Gionta. Già da tempo, negli ambienti della mala organizzata e nello stesso clan dei Valentini di Torre Annunziata si temeva che il boss venisse «scaricato», ucciso o arrestato. Il boss della Nuova famiglia che era riuscito a creare un vero e proprio impero della camorra nell'area vesuviana, è stato trasferito al carcere di Poggioreale subito dopo la cattura a Marano l'altro pomeriggio. Verrà interrogato da più magistrati in relazione ai diversi ordini e mandati di cattura che ha accumulato in questi anni. I maggiori interrogativi dovranno essere chiariti, però, dal giudice Guglielmo Palmeri, che si sta occupando dei retroscena della strage di Sant’Alessandro.


Dopo il 26 agosto dell'anno scorso il boss di Torre Annunziata era diventato un personaggio scomodo. La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan di «Nuova famiglia», i Bardellino. I carabinieri erano da tempo sulle tracce del super latitante che proprio nella zona di Marano, area d’influenza dei Nuvoletta, aveva creduto di trovare rifugio. Ma il boss di Torre Annunziata, negli ultimi anni, aveva voluto «strafare». La sua ascesa tra il 1981 e il 1982: gli anni della lotta con la «Nuova camorra organizzata» di Raffaele Cutolo. L’11 settembre 1981 a Torre Annunziata vengono eliminati gli ultimi due capizona di Cutolo nell'area vesuviana, Salvatore Montella e Carlo Umberto Cirillo. Da boss indiscusso del contrabbando di sigarette (un affare di miliardi e con la possibilità di avere a disposizione un elevato numero di gregari) Gionta riesce a conquistare il controllo del mercato ittico. Con una cooperativa, la Do. Gi. pesca (figura la moglie Gemma Donnarumma), mette le mani su interessi di miliardi. È la prima pietra della vera e propria holding che riuscirà a ingrandire negli anni successivi. Come «ambulante ittico», con questa qualifica è iscritto alla Camera di Commercio dal ‘68, fa diversi viaggi in Sicilia dove stabilisce contatti con la mafia. Per chi può disporre di alcune navi per il contrabbando di sigarette (una viene sequestrata a giugno al largo della Grecia, un'altra nelle acque di Capri) non è difficile controllare anche il mercato della droga. È proprio il traffico dell'eroina uno degli elementi di conflitto con gli altri clan in particolare con gli uomini di Bardellino che a Torre Annunziata avevano conquistato una fetta del mercato. I due ultimatum lanciati da Gionta (il secondo scadeva proprio il 26 agosto) sono alcuni dei motivi che hanno scatenato la strage.


Ma il clan dei Valentini tenta di allargarsi anche in altre zone. Il 20 maggio a Torre Annunziata viene ucciso Leopoldo Del Gaudio, boss di Ponte Persica, controllava il mercato dei fiori di Pompei. A luglio Gionta acquista camion e attrezzature per rimettere in piedi anche il mercato della carne. Un settore controllato dal clan degli Alfieri di Boscoreale, legato a Bardellino. Troppi elementi di contrasto con i rivali che decidono di coalizzarsi per stroncare definitivamente il boss di Torre Annunziata. E tra i 54 mandati di cattura emessi dal Tribunale di Napoli il 3 novembre dell'anno scorso ci sono anche i nomi di Carmine Alfieri e Antonio Bardellino. Con la strage l'attacco è decisivo e mirato a distruggere l’intero clan. Torre Annunziata diventa una zona che scotta. Gionta Valentino un personaggio scomodo anche per gli stessi alleati. Un’ipotesi sulla quale stanno indagando gli inquirenti e che potrebbe segnare una svolta anche nelle alleanze della «Nuova famiglia». Un accordo tra Bardellino e Nuvoletta avrebbe avuto come prezzo proprio l’eliminazione del boss di Torre Annunziata e una nuova distribuzione dei grossi interessi economici dell’area vesuviana. Con la cattura di Valentino Gionta salgono a ventotto i presunti camorristi del clan arrestati da carabinieri e polizia dopo la strage. Ancora latitanti il fratello del boss, Ernesto Gionta, e il suocero, Pasquale Donnarumma.


 


Giancarlo Siani


 

sabato 9 settembre 2006

Solo contro tutti


Carlo Alberto Dalla Chiesa viene ucciso alle 21 e 15 del 3 settembre 1982. E’ un venerdì, quando i sicari affiancano l’A 112 dove viaggia insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro. Ammazzato pure l’agente di scorta Domenico Russo che viaggia su un ‘Alfetta’.


 


Da "la Repubblica" del 10 agosto 1982


Parla il generale Dalla Chiesa, l'uomo incaricato di sconfiggere l'associazione criminale più pericolosa d'Italia


Quell'uomo solo contro la mafia


di Giorgio Bocca


 


PALERMO - La Mafia non fa vacanza, macina ogni giorno i suoi delitti; tre morti ammazzati giovedì 5 fra Bagheria, Casteldaccia e Altavilla Milicia, altri tre venerdì, un morto e un sequestrato sabato, ancora un omicidio domenica notte, sempre lì , alle porte di Palermo, mondo arcaico e feroce che ignora la Sicilia degli svaghi, del turismo internazionale, del "wind surf" nel mare azzurro di Mondello. Ma è soprattutto il modo che offende, il "segno" che esso dà al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e allo Stato: i killer girano su potenti motociclette, sparano nel centro degli abitati, uccidono come gli pare, a distanza di dieci minuti da un delitto all'altro.

Dalla Chiesa è nero: "Da oggi la zona sarà presidiata, manu militari . Non spero certo di catturare gli assassini ad un posto di blocco, ma la presenza dello Stato deve essere visibile, l'arroganza mafiosa deve cessare".


Che arroganza generale ?  "A un giornalista devo dirlo ? Uccidono in pieno giorno, trasportano i cadaveri, li mutilano, ce li posano fra questura e Regione, li bruciano alle tre del pomeriggio in una strada centrale di Palermo".

Questo Dalla Chiesa in doppio petto blu prefettizio vive con un certo disagio la sua trasformazione: dai bunker catafratti di Via Moscova, in Milano, guardati da carabinieri in armi, a questa villa Wittaker, un po’ lasciata andare, un po’ leziosa, fra alberi profumati, poliziotti assonnati, un vecchio segretario che arriva con le tazzine del caffé e sorride come a dire: ne ho visti io di prefetti che dovevano sconfiggere la Mafia.


Generale, vorrei farle una domanda pesante. Lei è qui per amore o per forza? Questa quasi impossibile scommessa contro la Mafia è sua o di qualcuno altro che vorrebbe bruciarla? Lei cosa è veramente, un proconsole o un prefetto nei guai?

"Beh, sono di certo nella storia italiana il primo generale dei carabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura , anche se di prima classe, non mi interessa . Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell'interesse dello Stato". Credevo che il governo si fosse impegnato, se ricordo bene il Consiglio dei Ministri del 2 aprile scorso ha deciso che lei deve "coordinare sia sul piano nazionale che su quello locale" la lotta alla Mafia. "Non mi risulta che questi impegni siano stati ancora codificati".


Vediamo un po’ generale, lei forse vuol dirmi che stando alla legge il potere di un prefetto è identico a quello di un altro prefetto ed è la stessa cosa di quello di un questore. Ma è implicito che lei sia il sovrintendente, il coordinatore. "Preferirei l'esplicito". Se non ottiene l'investitura formale che farà ? Rinuncerà alla missione ?

"Vedremo a settembre . Sono venuto qui per dirigere la lotta alla Mafia, non per discutere di competenze e di precedenze. Ma non mi faccia dire di più".

No, parliamone, queste faccende all'italiana vanno chiarite. Lei cosa chiede? Una sorta di dittatura antimafia? I poteri speciali del prefetto Mori? "Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza. Mio padre al tempo di Mori comandava i carabinieri di Agrigento. Mori poteva servirsi di lui ad Agrigento e di altri a Trapani a Enna o anche Messina, dove occorresse. Chiunque pensasse di combattere la Mafia nel "pascolo" palermitano e non nel resto d'Italia non farebbe che perdere tempo".


Lei cosa chiede? L'autonomia e l'ubiquità di cui ha potuto disporre nella lotta al terrorismo? "Ho idee chiare, ma capirà che non è il caso di parlarne in pubblico . Le dico solo che le ho già, e da tempo, convenientemente illustrate nella sede competente. Spero che si concretizzino al più presto. Altrimenti non si potranno attendere sviluppi positivi". Ritorna con la Mafia il modulo antiterrorista? Nuclei fidati, coordinati in tutte le città calde? Il generale fa un gesto con la mano, come a dire, non insista, disciplina giovinetto: questo singolare personaggio scaltro e ingenuo, maestro di diplomazie italiane ma con squarci di candori risorgimentali . Difficile da capire. Generale, noi ci siamo conosciuti qui negli anni di Corleone e di Liggio, lei è stato qui fra il '66 e il '73 in funzione antimafia, il giovane ufficiale nordista de "Il giorno della civetta". Che cosa ha capito allora della Mafia e che cosa capisce oggi, 1982?  "Allora ho capito una cosa, soprattutto: che l'istituto del soggiorno obbligatorio era un boomerang, qualcosa superato dalla rivoluzione tecnologica, dalle informazioni, dai trasporti. Ricordo che i miei corleonesi, i Liggio, i Collura , i Criscione si sono tutti ritrovati stranamente a Venaria Reale, alle porte di Torino, a brevissima distanza da Liggio con il quale erano stati da me denunziati a Corleone per più omicidi nel 1949. Chiedevo notizie sul loro conto e mi veniva risposto: "Brave persone". Non disturbano. Firmano regolarmente. Nessuno si era accorto che in giornata magari erano venuti qui a Palermo o che tenevano ufficio a Milano o, chi sa, erano stati a Londra o a Parigi". E oggi ? "Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. E' finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?"


Scusi la curiosità, generale. Ma quel Ferlito mafioso, ucciso nell'agguato sull'autostrada, si quando ammazzarono anche i carabinieri di scorta, non era il cugino dell'assessore ai lavori pubblici di Catania? "Si". E come andiamo generale, con i piani regolatori delle grandi città? E' vero che sono sempre nel cassetto dell'assessore al territorio e all'ambiente? "Così mi viene denunziato dai sindaci costretti da anni a tollerare l'abusivismo".


Il caso Mattarella. Senta generale, lei ed io abbiamo la stessa età e abbiamo visto, sia pure da ottiche diverse, le stesse vicende italiane, alcune prevedibili, altre assolutamente no. Per esempio che il figlio di Bernardo Mattarella venisse ucciso dalla Mafia. Mattarella junior è stato riempito di piombo mafioso.

Cosa è successo, generale? "E' accaduto questo: che il figlio, certamente consapevole di qualche ombra avanzata nei confronti del padre, tutto ha fatto perché la sua attività politica e l'impegno del suo lavoro come pubblico amministratore fossero esenti da qualsiasi riserva. E quando lui ha dato chiara dimostrazione di questo suo intento, ha trovato il piombo della Mafia. Ho fatto ricerche su questo fatto nuovo: la Mafia che uccide i potenti, che alza il mirino ai signori del "palazzo". Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato". Mi spieghi meglio. "Il caso di Mattarella è ancora oscuro, si procede per ipotesi. Forse aveva intuito che qualche potere locale tendeva a prevaricare la linearità dell'amministrazione. Anche nella DC aveva più di un nemico. Ma l'esempio più chiaro è quello del procuratore Costa, che potrebbe essere la copia conforme del caso Coco"


Lei dice che fra filosofia mafiosa e filosofia brigatista esistono affinità elettive?

"Direi di si. Costa diventa troppo pericoloso quando decide, contro la maggioranza della procura, di rinviare a giudizio gli Inzerillo e gli Spatola. Ma è isolato, dunque può essere ucciso, cancellato come un corpo estraneo. Così è stato per Coco: magistratura, opinione pubblica e anche voi garantisti eravate favorevoli al cambio fra Sossi e quelli della XXII ottobre. Coco disse no. E fu ammazzato"


Generale, mi sbaglio o lei ha una idea piuttosto estesa dei mandanti morali e dei complici indiretti? No, non si arrabbi, mi dica piuttosto perché fu ucciso il comunista Pio La Torre. "Per tutta la sua vita. Ma, decisiva, per la sua ultima proposta di legge, di mettere accanto alla "associazione a delinquere" la associazione mafiosa." Non sono la stessa cosa? Come si può perseguire una associazione mafiosa se non si hanno le prove che sia anche a delinquere?

"E' materia da definire. Magistrati, sociologi, poliziotti, giuristi sanno benissimo che cosa è l'associazione mafiosa. La definiscono per il codice e sottraggono i giudizi alle opinioni personali".


Come si vede lei generale Dalla Chiesa di fronte al padrino del "Giorno della civetta"? "Stiamo studiandoci, muovendo le prime pedine. La Mafia è cauta, lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana. Un altro non se ne accorgerebbe, ma io questo mondo lo conosco". "Era meglio l'antiterrorismo" Mi faccia un esempio. "Certi inviti. Un amico con cui hai avuto un rapporto di affari, di ufficio, ti dice, come per combinazione: perché non andiamo a prendere il caffé dai tali. Il nome è illustre. Se io non so che in quella casa l'eroina corre a fiumi ci vado e servo da copertura . Ma se io ci vado sapendo, è il segno che potrei avallare con la sola presenza quanto accade".


Che mondo complicato. Forse era meglio l'antiterrorismo. "In un certo senso si, allora avevo dietro di me l'opinione pubblica, l'attenzione dell' Italia che conta. I gambizzati erano tanti e quasi tutti negli uffici alti, giornalisti, magistrati, uomini politici. Con la Mafia è diverso, salvo rare eccezioni la Mafia uccide i malavitosi, l'Italia per bene può disinteressarsene. E sbaglia". Perché sbaglia, generale? "La Mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fato grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. Vede, a me interessa conoscere questa "accumulazione primitiva" del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco , queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti a la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere".

E deposita nelle banche coperte dal segreto bancario, no, generale?

"Il segreto bancario. La questione vera non è lì. Se ne parla da due anni e ormai i mafiosi hanno preso le loro precauzioni. E poi che segreto di Pulcinella è? Le banche sanno benissimo da anni chi sono i loro clienti mafiosi. La lotta alla Mafia non si fa nelle banche o a Bagheria o volta per volta, ma in modo globale". Generale Dalla Chiesa, da dove nascono le sue grandissime ambizioni?

Mi guarda incuriosito. Voglio dire, generale: questa lotta alla Mafia l'hanno persa tutti, da secoli, i Borboni come i Savoia, la dittatura fascista come le democrazie pre e post fasciste , Garibaldi e Petrosino, il prefetto Mori e il bandito Giuliani, l'ala socialista dell'Evis indipendente e la sinistra sindacale dei Rizzuto e dei Cannavale, la Commissione parlamentare di inchiesta e Danilo Dolci. Ma lei Carlo Alberto Dalla Chiesa si mette il doppio petto blu prefettizio e ci vuole riprovare.

"Ma si, e con un certo ottimismo sempre che venga al più presto definito il carattere della specifica investitura con la quale mi hanno fatto partire . Io, badi, non dico di vincere, di debellare, ma di contenere. Mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla Mafia il suo potere. Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati".

Si va a pranzo in un ristorante della Marina con la signora Dalla Chiesa, oggetto misterioso della Palermo del potere. Milanese, giovane, bella. Mah! In apparenza non ci sono guardie, precauzioni. Il generale assicura che non c'erano neppure negli anni dell'antiterrorismo. Dice che è stata la fortuna a salvarlo le tre o quattro volte che cercarono di trasferirlo a un mondo migliore. "Doveva uccidermi Piancone la sera che andai al convegno dei Lyons. Ma ci andai in borghese e mi vide troppo tardi. Peci, quando lo arrestai, aveva in tasca l'elenco completo di quelli che avevano firmato il necrologio per la mia prima moglie . Di tutti sapevano indirizzo, abitudini, orari. Nel caso mi fossi rifugiato da uno di loro, per precauzione. Ma io precauzioni non ne prendo. Non le ho prese neppure nei giorni in cui su "Rosso" appariva la mia faccia al centro del bersaglio da tirassegno ,con il punteggio dieci, il massimo . Se non è istigazione ad uccidere questa?".


Generale, sinceramente, ma a lei i garantisti piacciono? Dagli altri tavoli ci osservano in tralice. Quando usciamo qualcuno accenna un inchino e mormora: "Eccellenza".