domenica 31 dicembre 2006

La morte di Saddam Hussein


Saddam giustiziato, Bush condanna se stesso


Furio Colombo


 


Quando Saddam Hussein sarà impiccato, una di queste ore, mentre tanti continuano a credere nel detto kennediano «un problema creato da uomini può sempre essere risolto da uomini», George W. Bush avrà proclamato per sempre il suo fallimento.

Ha fallito nel non avere capito l´immensa differenza che c´è tra il liberare un Paese da un dittatore e distruggerlo. Ha fallito nel non sapere (non voler neppure sapere) che cosa fare dopo la conquista, che non è mai stata una vittoria.

Ha fallito nel non avere intravisto, neppure per un istante, i volti veri e umani di un popolo che poteva, doveva partecipare alla ricostruzione, ed è stato emarginato, umiliato, imprigionato, escluso.

Ha fallito nel progetto strano e così palesemente sbagliato di unire l´ideale della democrazia a quello del potere sopra ogni legge e ogni trattato internazionale, immaginando (e ciò anche in futuro apparirà follia) che si possano costruire insieme Abu Grahib e la libertà, Guantanamo e il nuovo ordine democratico.

George W. Bush ha avuto sfortuna.

È stato circondato dai peggiori personaggi che si siano affacciati alla vita pubblica del mondo negli ultimi anni. O ha avuto la disgrazia di sceglierli.

Che cosa pensi l´America di questi personaggi e delle azioni di cui sono responsabili, lo ha detto nel modo più drammatico il rapporto di un americano al di sopra di ogni sospetto, James Baker, già segretario di Stato di Bush padre, statista stimato nel mondo. Il suo giudizio è il più umiliante che possa toccare a un presidente che ha proclamato una guerra sbagliata, ha vantato una vittoria che non c´è stata, continua a credere che vincere significhi più forza militare, più soldati, più armi, mentre persone vicine a lui - quelle che hanno integrità e coraggio - gli stanno descrivendo l´orrore di ciò che ha fatto.

Il New York Times di ieri ha pubblicato il discorso di un oscuro senatore repubblicano, Gordon Smith. Di lui, dice il giornale, non si era mai sentita la voce in Senato. Prima di Natale, tra lo stupore dei colleghi si è alzato e ha detto: «Il mio percorso con questa politica finisce qui, adesso. Mi chiedete di sostenere una guerra in cui ogni giorno la stessa pattuglia di soldati americani percorre una strada che non conosce, fra gente che non ha alcuna ragione di amarci, e ogni giorno qualcuno di quei soldati salta in aria. Non posso più dire di sì a questa politica. Dico che è assurda. Anzi temo che sia criminale».

Racconta il giornale: «Nel silenzio dell´aula le parole del leale senatore repubblicano sono risuonate con tanta forza che Washington e anche i più cinici addetti alla vita politica hanno dovuto tenerne conto. Molti senatori sussurravano: Smith ha parlato per me».

Ora è evidente la sfortuna più grande di George W. Bush: nessuno dei suoi collaboratori più stretti, in quella riunione del Crowford Ranch, in Texas, dove quasi certamente è stata decisa la morte di Saddam Hussein e dunque l´inizio della seconda parte della tragedia irachena, ha avuto il coraggio del «leale senatore Smith».

Bush ha avuto la sfortuna di avere accanto un amico inutile come Tony Blair, che gli ha dato sempre ragione e ha spaccato l´Europa in un momento cruciale. Adesso l´Europa è tutta unita e tutta contraria a un gesto che non ha niente a che fare con la pietà e molto con la politica, perché è un evidente e gravissimo errore. È triste che l´Europa non sia stata così unita quando era stata lanciata l´idea, infinitamente più realistica di questa guerra che non può finire, di «liberare» l´Iraq rimuovendo con una ben concertata manovra diplomatica Saddam Hussein, e dando origine a un processo democratico in un Paese senza macerie e senza morti, in un Paese in cui le vecchie orrende prigioni sarebbero state chiuse invece di aprire nuove orrende prigioni, invece di confondere ogni giorno gli iracheni che soffrono con i terroristi che sono un comune pericolo.

Molti ricordano, non solo in Italia, che deporre senza violenza Saddam Hussein era stata l´idea di Marco Pannella, e che era un´idea vincente. Per alcuni di noi adesso è facile ricordare l´inerzia deliberata dei giorni berlusconiani. Ma è stata una inerzia più grande, più estesa e diffusa.

Adesso il mondo sta dicendo a George Bush di salvare se stesso e quel che resta della sua reputazione, evitando questa impiccagione due volte immorale. Perché conferma l´orrore della pena di morte. E perché apre una nuova e più violenta stagione di vendetta e di scontro e chiama morti su morti.

Ma George Bush, lo abbiamo detto, è un uomo sfortunato. È sordo verso i suoi sostenitori leali. Ed è circondato di poche persone che gli danno ragione. Era rimasto in molti (parlo anche dell´opinione americana) quel barlume di speranza, Condoleezza Rice. Se la sua voce non si sente questa volta, anche il suo breve passaggio sulla scena del mondo ha finito il percorso, e non lascerà traccia. Resterà ai collezionisti di carte e documenti politici il compito di spiegarci perché. Resterà il problema di spiegare il ruolo, che sta diventando penoso, di Tony Blair, che si butta in una guerra che non può spiegare, da cui non sa come uscire. E sull´immenso e ovvio errore di «giustiziare» Saddam Hussein non ha speso una sola parola utile.

Chi tace e fa il complice adesso è un cattivo amico, conferma l´errore e si avvia nel loggione degli statisti che hanno perso l´occasione di cambiare la storia. Con l´impiccagione di Saddam Hussein tutto il peggio della storia (compreso il peggio di Saddam Hussein) si ripete. Che almeno non si dimentichi che tutto questo maledetto percorso si poteva evitare, e che la politica ha come primo compito di evitare il sangue, non di spargerlo.

Persino adesso George W. Bush poteva salvarsi. Per quel che sappiamo, ha scelto di no. Il suo carattere distintivo restarà sbagliare fino alla fine.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 30.12.06

martedì 12 dicembre 2006

12 dicembre 1969: la strage di Piazza Fontana


Il romanzo delle stragi


di Pier Paolo Pasolini


dal "Corriere della sera" del 14 novembre 1974 col titolo "Che cos'è questo golpe?" 


Io so.


Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).

Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.

Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.

Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.


Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).


Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".


Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.

Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.


Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.


Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.

Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile.


Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974.

Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.


A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.

Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.


Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.


Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi. Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.


Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici" è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.

Ma non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.


È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all'opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.


Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto "insieme" di dirigenti, base e votanti - e il resto dell'Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un "Paese separato", un'isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel "compromesso", realistico, che forse salverebbe l'Italia dal completo sfacelo: "compromesso" che sarebbe però in realtà una "alleanza" tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell'altro.

Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo. La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.


Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere. Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch'essi come uomini di potere.


Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l'intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore. Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto.


L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento. Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire. Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana. E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista. Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.


Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.


 


 

giovedì 7 dicembre 2006

Ecce Bombo

Torna la pellicola restaurata a quasi 29 anni dalla prima uscita

da oggi al Nuovo Sacher di Roma e in altre sale italiane


Moretti: "Ecce Bombo non doveva far ridere""Ero convinto di aver fatto un film doloroso”Non mi aspettavo tanta identificazione"


di PAOLO D'AGOSTINI




 







Una scena tratta da "Ecce Bombo"



ROMA - "Mi avevano raccontato di uno straccivendolo che andava in giro urlando così. Avevo un orribile titolo alternativo: Sono stanco delle uova al tegamino". Ecco perché Ecce Bombo: "Solamente un suono. Ma posso ripartire da prima?".

Prego, Moretti. "Dopo i primi tre corti avevo scritto la mia prima sceneggiatura, Militanza militanza.... Mi accorsi però che non solo era difficile farmela produrre ma anche solamente farla leggere. Dopo un po' di sale d'attesa capii che, anziché lamentarmi, avrei dovuto continuare a fare da solo. Ancora in superotto. Lasciai perdere questa storia di un gruppo della sinistra extraparlamentare che si avviava a diventare partitino. E scrissi un canovaccio, più semplice da realizzare in superotto, che era Io sono un autarchico. Alla fine del '76 esce al Filmstudio a Roma, diventa un caso e cominciano ad arrivarmi delle proposte. Avevo, già pronto, il solito Militanza militanza... A febbraio nasce il "movimento del '77" e io mi rendo conto che la mia sceneggiatura ha perso di attualità, perché il nuovo movimento è completamente diverso dalle vecchie organizzazioni di estrema sinistra. Scrivo allora tre soggettini: uno si chiamava Piccolo gruppo, sull'autocoscienza maschile, un altro Delirio d'agosto, sul mio personaggio e i suoi rapporti con la famiglia, le ragazze. Il terzo era una storia d'amore ambientata nell'università. Ecce Bombo nacque dalla fusione dei primi due. Ho girato il film a settembre-ottobre '77, non immaginando il successo che avrebbe avuto, né che stavo costruendo un personaggio che sarebbe poi tornato tante volte: Michele Apicella. Ero convinto di aver fatto un film doloroso, che raccontava una porzione di realtà molto circoscritta e poco rappresentativa della condizione giovanile italiana. Tutto mi aspettavo fuorché l'identificazione che poi c'è stata, anche da parte di persone lontanissime".

Pensava di aver fatto un film drammatico e per pochissimi: fu subito percepito come un film comico e come specchio di una generazione intera, o quasi.

"Questa è la fortuna del cinema. E poi sarebbe ridicolo se il regista pretendesse di fare il censore, il controllore o il vigilante delle reazioni del pubblico. Dal momento in cui un film è proiettato su uno schermo il pubblico lo vede come vuole. Rivedendolo mi è saltata addosso la consapevolezza che quei personaggi oggi potrebbero essere miei figli: il mio, quelli di Fabio Traversa o di Paolo Zaccagnini. La stessa compagnia di amici di Io sono un autarchico". Come già in Io sono un autarchico e nei film successivi qui c'è anche suo padre che era professore universitario di epigrafia greca. "Mio padre aveva molto talento come attore. C'era però un patto tra noi: non dovevo dare sue foto alla stampa, non dovevo metterlo nei titoli e neppure nei trailer. Ad ogni consiglio di facoltà i suoi colleghi lo prendevano in giro. Ma sono convinto che fosse invidia". È vero o no che voleva sentirsi ed essere identificato come discendente di Fellini e fratello di Bellocchio?

"Non mi aspettavo niente, e non mi proponevo di imitare o di essere erede di nessuno. (Tra l'altro angosciandomi molto durante le riprese, e non ho mai saputo cosa rispondere a tutti quelli che mi dicevano: "Una cosa si vede chiaramente: che vi siete divertiti un mondo!". No, per niente, nessuna allegria, nessuna felicità)".

Insomma come si trova a rivedersi? Non arrossisce per la presunzione o l'ingenuità di quel Moretti? "Io ho verso il film le stesse reazioni che avevo un anno dopo averlo fatto. Quello che mi emozionava mi emoziona oggi. Casomai ci vedo qualcosa in più. L'aver colto cose che mi apparivano ovvie, come l'emergere delle radio e delle tv "libere" (si diceva così, non sapevamo che sarebbero diventate tutt'altra cosa). E mi viene in mente un'altra cosa, che non c'entra col film: 30 anni fa c'era un'opinione pubblica che reagiva e si scandalizzava, oggi non esiste più. Si digerisce tutto e le due frasi più ricorrenti sono: "La coerenza è la virtù degli imbecilli", stupida e prepotente. E l'altra: "Io non voglio dare giudizi". E perché? Te lo ha vietato il dottore?". Non è tipo da aver fatto un'indagine di mercato: perché far riuscire Ecce Bombo a quasi trent'anni di distanza? Che cosa le fa credere che oggi possa incontrare un pubblico. E quale? "Penso che possa raccontare quel periodo e anche qualcosa di come siamo ancora: i rapporti tra le persone, quelli familiari, il velleitarismo.... Tra parentesi: io i film sugli anni '70 li ho fatti negli anni '70, come sugli anni '80 negli anni '80, e non dopo, quando sarebbe stato più facile. E poi non è che voglio "occupare il mercato", ce ne stiamo tranquilli al Nuovo Sacher e in una ventina di altre sale". Ogni iniziativa presa nella sua sala è sempre baciata dalla fortuna... "Forse non è solo fortuna. E approfitto per ricordare che la sera, dopo l'ultimo spettacolo al Nuovo Sacher, reciterò il monologo Caro diario, dai quaderni che scrivevo durante la lavorazione di quel film". Ecce Bombo uscì a pochi giorni dal sequestro Moro. "L'8 marzo '78. La settimana dopo i brigatisti uccisero cinque uomini della scorta e sequestrarono Moro. È un clima che ricordo ancora molto bene". È più difficile oggi cominciare di quando ha cominciato lei? "No. Oggi come ieri bisogna essere determinati, non bisogna fare del vittimismo, bisogna crederci al punto di chiudersi ogni altra via d'uscita o soluzione di riserva. Almeno: io ho fatto così".


(6 dicembre 2006)