sabato 6 ottobre 2007

Le profezie di Licio Gelli


Intervista a Gelli: "Guardo il Paese, leggo i giornali e dico: avevo già scritto tutto trent'anni fa"


"Giustizia, tv, ordine pubblico è finita proprio come dicevo io"


dal nostro inviato CONCITA DE GREGORIO


AREZZO - Son soddisfazioni, arrivare indenni a quell'età e godersi il copyright. "Ho una vecchiaia serena. Tutte le mattine parlo con le voci della mia coscienza, ed è un dialogo che mi quieta. Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d'autore. La giustizia, la tv, l'ordine pubblico. Ho scritto tutto trent'anni fa". Tutto nel piano di Rinascita, che preveggenza. Tutto in quelle carte sequestrate qui a villa Wanda ventidue anni fa: 962 affiliati alla Loggia. C'erano militari, magistrati, politici, imprenditori, giornalisti. C'era l'attuale presidente del Consiglio, il suo nuovo braccio destro al partito Cicchitto: allora erano socialisti.


Chi ha condiviso quel progetto è oggi alla guida del paese. "Se le radici sono buone la pianta germoglia. Ma questo è un fatto che non ha più niente a che vedere con me". Niente, certo. Difatti quando parla di Berlusconi e di Cicchitto, di Fini di Costanzo e di Cossiga lo fa con la benevolenza lieve che si riserva ai ricordi di una stagione propizia. Sempre con una frase, però, con una parola che li fissa senza errore ad un'origine precisa della storia.


Quel che rende Licio Gelli ancora spaventosamente potente è la memoria. Lo si capisce dopo la prima mezz'ora di conversazione, atterrisce dopo due. Il Venerabile maestro della Loggia Propaganda 2 è in grado di ricordare l'indirizzo completo di numero civico della prima casa romana di Giorgio Almirante, l'abito che indossava la sua prima moglie quel giorno che gli fece visita a Natale, i nomi dei tre figli di Attilio Piccioni e da lì ricostruire nel dettaglio il caso Montesi che vide coinvolto uno dei tre, ricorda il numero di conto corrente su cui fece quel certo bonifico un giorno di sessant'anni fa, la targa della camionetta di quando era ufficiale di collegamento col comando nazista, quante volte esattamente ha incontrato Silvio Berlusconi e in che anni in che mesi in che giorni, come si chiamava il segretario di Giovanni Leone a cui consegnò la cartella coi 58 punti del piano R, che macchina guidava, se a Roma c'era il sole quella mattina e chi incontrò prima di arrivare a destinazione, che cosa gli disse, cosa quello rispose.


Questo di ogni giorno dei suoi 84 anni di vita, attualmente archiviata in 33 faldoni al primo piano di villa Wanda, dietro a una porta invisibile a scomparsa. "Ogni sera, sempre, ho scritto un appunto del giorno. Per il momento per fortuna non mi servono, perché ricordo tutto. Però sono tranquillo, gli appunti sono lì".


Il potere della memoria, ecco. Il resto è coreografia: il parco della villa che sembra il giardino di Bomarzo, con le statue le fontane i mostri, la villa in fondo a un sentiero di ghiaia dietro a un convento, le stanze con le pareti foderate di seta, i soffitti bassi di legno scuro, elefanti di porcellana che reggono i telefoni rossi, divani di cuoio da due da tre da sette posti, di velluto blu, di raso rosa, a elle e a emiciclo, icone russe, madonne italiane, guerrieri d'argento, pupi, porcellane danesi, un vittoriano buio con le imposte chiuse al sole di settembre, scale, studi, studioli, sale d'attesa coi vassoi d'argento pieni di caramelle al limone. Ma lei vive qui da solo?. "Sì certo solo". E questi rumori, le ombre dietro le porte di vetro colorato? "La servitù".


Commendatore, gli sussurra una segretaria pallida porgendogli un biglietto: una visita. "Mi scusi, mi consente di assentarmi un attimo? E' un vecchio amico".


Gelli è in piena attività. Riceve in tre uffici: a Pistoia, a Montecatini, a Roma. Oltre che in villa, naturalmente, ma fino ad Arezzo si spingono gli intimi. Dedica ad ogni città un giorno della settimana. A Pistoia il venerdì, di solito. A Roma viene il mercoledì, e scende ancora all'Excelsior. Le liste d'attesa per incontrarlo sono di circa dodici giorni, ma dipende. Per alcuni il rito è abbreviato. Al telefono coi suoi segretari si è pregati di chiamarlo "lo zio": "La regola numero uno è non fare mai nomi - insiste l'ultimo di una serie di intermediari - Lei non dica niente, né chi la manda né perché. La richiameranno. Quando poi lo incontra vedrà: è una persona squisita. Solo: non gli parli di politica". Di poesia, vorrebbe si parlasse: perché Licio Gelli da quando ha ufficialmente smesso di lavorare alla trasformazione dell'Italia in un Paese "ordinato secondo i criteri del merito e della gerarchia", come lui dice, "per l'esclusivo bene del popolo" ha preso a scrivere libri di poesia, ovviamente premiati di norma con coppe e medaglie, gli "amici" nel '96 lo hanno anche candidato al Nobel.


"Vorrei scivolare dolcemente nell'oblio. Vedo che il mio nome compare anche nelle parole crociate, e ne soffro. Vorrei che di me come Venerabile maestro non si parlasse più. Siamo stati sottoposti a un massacro. Pensi a Carmelo Spagnolo, procuratore generale di Roma, pensi a Stammati che tentò di uccidersi. E' stata una gogna in confronto alla quale le conseguenze di Mani Pulite sono una sciocchezza. In fondo Mani pulite è stata solo una faccenda di corna. Lei crede che la corruzione sia scomparsa? Non vede che è ovunque, peggio di prima? Prima si prendeva facciamo il 3 per cento, ora il 10. Io non ho mai fatto niente di illegale né di illecito. Sono stato assolto da tutto. Le mie mani, eccole, sono nette di oro e di sangue".


Assolto da tutto non è vero, dev'essere per questo che lo ripete tre volte e s'indurisce. Indossa un abito principe di Galles, cravatta di seta, catena d'oro al taschino, occhiali con montatura leggerissima, all'anulare la fede e un grosso anello con stemma. Questo avrebbe detto dunque a Montecatini, a quel convegno a cui l'hanno invitata e poi non è andato? Dicono che Andreotti l'abbia chiamata per dissuaderla. "E' una sciocchezza. Andreotti non è uomo da fare un gesto simile. Si vede che lei non lo conosce".


Senz'altro lei lo conosce meglio. "Se Andreotti fosse un'azione avrebbe sul mercato mondiale centinaia di compratori. E' un uomo di grandissimo valore politico". Come molti della sua generazione. "Molti, non tutti. Cossiga certamente. Non Forlani, non aveva spina dorsale. Naturalmente Almirante, eravamo molto amici, siamo stati nella Repubblica sociale insieme. L'ho finanziato due volte: la seconda per Fini. Prometteva molto, Fini. Da un paio d'anni si è come appannato". Forse un po' schiacciato dalla personalità di Berlusconi. "Può darsi. Berlusconi è un uomo fuori dal comune. Ricordo bene che già allora, ai tempi dei nostri primi incontri, aveva questa caratteristica: sapeva realizzare i suoi progetti. Un uomo del fare. Di questo c'è bisogno in Italia: non di parole, di azioni".


Vi sentite ancora? "Che domanda impertinente. Piuttosto. L'editore Dino, lo conosce?, ha appena ripubblicato il mio primo libro: Fuoco! E' stata la mia opera più sofferta, anche perché ha coinciso con la morte di mio fratello nella nostra guerra di Spagna. E' un edizione pregiata a tiratura limitata, porta in copertina il mio bassorilievo in argento. Ci sono due altri solo autori in questo catalogo: il Santo padre, e Silvio Berlusconi". Anche Berlusconi col bassorilievo d'argento? "Certo, guardi". Il titolo dell'opera è "Cultura e valori di una società globalizzata". Pensa che Berlusconi abbia saputo scegliere con accortezza i suoi collaboratori? "Credo che in questa ultima fase si senta assediato. E' circondato da persone che pensano al "dopo". Non si fida, e fa bene.


E' stato giusto bonificare il partito, affidarlo a un uomo come Cicchitto. Cicchitto lo conosco bene: è bravo, preparato". Il coordinatore sarebbe Bondi in realtà. "Sì, d'accordo. Credo che anche Bondi sia preparato. E' uno che viene dalla disciplina di partito". Comunista. "Non importa. Quello che conta è la disciplina e il rispetto della gerarchia". Ha visto il progetto di riordino del sistema televisivo? "Sì, buono". E la riforma della giustizia? "Ho sentito che quel Cordova ha detto: ma questo è il piano di Gelli. E dunque?


L'avevo messo per scritto trent'anni fa cosa fosse necessario fare. Leone mi chiese un parere, gli mandai uno schema in 58 punti per il tramite del suo segretario Valentino. Pensa che chi voglia assaltare il comando consegni il piano al generale nemico, o al ministro dell'Interno? Ma comunque non è di questo che vogliamo parlare, no? Vuole anche lei avere i materiali per scrivere una mia biografia? Arriva tardi: ho già completato il lavoro con uno scrittore di gran fama". Su una poltrona è appoggiato l'ultimo libro di Roberto Gervaso. La scrive con Gervaso? "Ma no, ci vuole una persona estranea ai fatti. Se vuole le mostro lo scaffale con le opere che mi riguardano, le ho catalogate: sono 344". Certo: il burattinaio è un soggetto affascinante. "Andò così: venne Costanzo a intervistarmi per il Corriere della sera. Dopo due ore di conversazione mi chiese: lei cosa voleva fare da piccolo. E io: il burattinaio. Meglio fare il burattinaio che il burattino, non le pare?".


Sembra che ce ne siano diversi di burattinai in giro ultimamente. "Il burattinaio è sempre uno, non ce ne possono essere diversi". E adesso chi è? "Adesso? Questa è una classe politica molto modesta, mediocre. Sono tutti ricattabili". Tutti? Mettiamo: Bossi. "Bossi si è creato la sua fortezza con la Padania, ha portato 80 parlamentari è stato bravo. Ma aveva molti debiti... Per risollevare il Paese servono soldi, non proclami. Ho sentito che Berlusconi ha invitato gli americani a investire in Italia: ha fatto bene, se qualcuno abbocca?


Ma la situazione è molto seria. L'economia va malissimo, l'Europa è stata una sventura. Non abolire le barriere, bisognava: moltiplicarle. Fare la spesa è diventato un problema, il popolo è scontento. Serve un progetto preciso". Per la Rinascita del Paese. "Certo". C'è il suo: certo forse i 900 affiliati alla P2 erano pochi. "Ma cosa dice, novecento persone sono anche troppe. Ne bastano molte meno". Allora quelle che ci sono ancora bastano, tolti i pentiti. "Nessuno si è pentito. Pentiti? A chi si riferisce? Costanzo, forse. L'unico. Con tutto quello che ho fatto per lui. Guardi: io non devo niente a nessuno ma tutti quelli che ho incontrato devono qualcosa a me. Ci sono dei ribelli a cui ho salvato la vita, ancora oggi quando mi incontrano mi abbracciano". Ribelli? "Sì, i ribelli che stavano sulle montagne, in tempo di guerra. Io ero ufficiale di collegamento fra il comando tedesco e quello italiano. Ne ho salvati tanti". Intende partigiani. "Li chiami come crede. Eravamo su fronti opposti, ma quando sei di fronte ad un amico non c'è divisa che conti.


L'amicizia, la fedeltà ad un amico viene prima di ogni cosa". L'amicizia, sì. La rete. Cossiga l'ha citata giorni fa, in un'intervista. Ha detto: chiedete a Gelli cosa pensava di Moro. "Da Moro andai a portare le credenziali quando ero console per un paese sudamericano. Mi disse: lei viene in nome di una dittatura, l'Italia è una democrazia. Mi spiegò che la democrazia è come un piatto di fagioli: per cucinarli bisogna avere molta pazienza, disse, e io gli risposi ?stia attento che i suoi fagioli non restino senz'acqua, ministro'". Anche in questo caso tragicamente profetico, per così dire. Lei cosa avrebbe fatto, potendo, per salvare Moro? "Non avrei fatto niente. Era stato fascista in gioventù, come Fanfani del resto, ma poi era diventato troppo diverso da noi. Lei ha visto il film sul delitto Moro?" Quello di Bellocchio? "No, l'altro. Quello tratto dal libro di Flamigni. Ma le pare che si possa immaginare un agente dei servizi segreti che con un impermeabile bianco va a controllare sulla scena del delitto se è tutto andato secondo i piani?". Gli agenti dei servizi sono più prudenti? "Lei conosce Cossiga? Proprio una bravissima persona. E poi un uomo così colto, uno capace di conversare in tedesco. Un uomo puro, un animo limpido. Dopo la morte di mia moglie mi mandò un biglietto: "Ti sono vicino nel tuo primo Natale senza di lei", capisce che pensiero? Vorrebbe farmi una cortesia? Se lo incontra, vuole porgergli i miei ricordi, e i miei saluti?".


la Repubblica (28 settembre 2003)


 

lunedì 19 marzo 2007

Arrivederci e grazie

 

MANI PULITE


Colombo lascia: vedo riabilitati i corrotti


Il pm della P2 e di Mani pulite: il Paese non crede nella legalità, mi dedicherò ai giovani.


Luigi Ferrarella


MILANO — Gherardo Colombo lascia la magistratura. Uno dei pm della scoperta della loggia P2 e di Mani pulite, ora giudice in Cassazione, dice addio alla toga a 60 anni. E spiega al Corriere: «In Italia quella tra cittadino e legalità è una relazione sofferta, la cultura di questo Paese di corporazioni è basata soprattutto su furbizia e privilegio. Tra prescrizioni, leggi modificate o abrogate, si è arrivati a una riabilitazione complessiva dei corrotti». E per il futuro? «Voglio incontrare i giovani e spiegare loro il senso della giustizia». «Mi sono convinto che, affinché la giurisdizione funzioni, è necessario esista una condivisa cultura generale di rispetto delle regole». E invece in Italia «quella tra cittadino e legalità è una relazione sofferta, la cultura di questo Paese di corporazioni è basata soprattutto su due categorie: furbizia e privilegio. A questo punto del mio percorso di vita, quello che voglio fare è invitare in particolare i giovani a riflettere sul senso della giustizia. E' una scelta del tutto personale, oggi mi sento più adatto a questo impegno che a quello di giudice». Dentro il giudice Corrado Carnevale, fuori il giudice Gherardo Colombo. Depurato da coincidenze temporali e rispettivi profili professionali, in termini puramente numerici è uno scambio alla pari: uno (il giudice assolto dall'accusa di mafia, il collega del "Falcone è un cretino") è riammesso dal Csm in magistratura (dove da presidente di sezione di Cassazione resterà sino a 83 anni); l'altro (con Turone il giudice della scoperta della loggia P2 e del delitto Ambrosoli, con Di Pietro il pm di Mani pulite, con Boccassini il pm dei processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme ai giudici corrotti da Previti), dà le dimissioni da magistrato ad appena 60 anni, 15 prima della pensione. Con una lettera presentata, in sordina, al Csm e al Ministero della Giustizia a metà febbraio, nei giorni delle stanche rievocazioni del 15esimo anniversario dell'inizio di Mani pulite. Non è una resa, dice, non c'è sfiducia nel lavoro di 33 anni in toga, né tantomeno ci sono porte da sbattere o superbe prese di distanza da coloro che invece restano con la toga addosso, convinti che far bene il proprio lavoro quotidiano contribuisca a migliorare da dentro il sistema: «Ci mancherebbe altro, anche l'amministrazione della giustizia è indispensabile». Anche, dice però Colombo. Prima, un «prima che magari non è cronologico ma sicuramente concettuale», spiega di essersi reso conto che, per crederci ancora, ha bisogno di sentire esistere un prerequisito: «La giustizia non può funzionare senza che esista prima una condivisione del fatto che debba funzionare».


La scelta di dedicarsi a questo obiettivo nasce da «un rammarico: il verificare come la giustizia sia l'unica sede nella quale si pensa che debbano essere accertate le responsabilità. Oggi, chiunque dica al mattino una cosa e la sera il contrario, è irresponsabile di entrambe le dichiarazioni. Ma lo strumento del processo penale è inadeguato a riaffermare la legalità quando l'illegalità sia particolarmente diffusa e non esistano interventi che in altri campi vadano nella stessa direzione. Diventa una spirale, crea sfiducia e disillusione». «E' incredibile vedere quanto le persone siano coinvolte da questi contatti, da fuori è davvero inimmaginabile», si infervora Colombo raccontando di incontri «programmati per due ore e dove invece devo fermarmi per tre»; di centinaia di persone che magari vengono in un teatro o in una biblioteca all'antivigilia di Natale e quindi non certo perché non sanno cosa fare»; di «ragazzi che succede spessissimo restino con la bocca aperta» a sentire eventi della vita del loro Paese fondamentali, ma che nessuno mai gli aveva raccontato. «Bisogna dar loro due cose: metodi e informazioni», ritiene Colombo, che, sostenuto anche dall'esperienza di tanti incontri in tema di corruzione, tecniche investigative, assistenza giudiziaria internazionale, ai quali è chiamato particolarmente all'estero, si propone ora di impegnarsi in questa direzione «sia attraverso contatti diretti, sia scrivendo che occupandomi di editoria: va comunicato il profondo perché delle regole e il come farle funzionare; occorre colmare la carenza di informazione non solo sui fatti, ma anche sulla concatenazione dei fatti e del pensiero; è necessario individuare le premesse e rendere evidenti le loro conseguenze, sottolineando la necessità di coerenza, in modo da dare risposte stimolanti alla tanta voglia di approfondire questi temi».


E si intuisce che, rapportata a sé, è proprio questa esigenza di "coerenza" a spingere ora Colombo a lasciare l'amministrazione della giustizia. Non ci crede più, non crede che si possa aumentare il tasso di legalità attraverso l'uso dello strumento giudiziario, quando nulla cambia all' esterno. Da fuori forse sì, gli sembra possibile: «A questo punto della vita mi sono convinto che può esistere giustizia funzionante soltanto se esiste un pensiero collettivo che in primo luogo individui il senso della giustizia nel rispetto degli altri; che poi ci rifletta; e che infine, se ne viene convinto, arrivi a condividerlo. Si tratta di confrontarsi con i fondamenti della nostra Costituzione, il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali e l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge». Mentre l'amministrazione reale della giustizia, quella che oggi a suo avviso arranca «senza una cultura condivisa delle regole, diventa qualcosa di estremamente difficoltoso, addirittura per certi versi eventuale, fonte essa stessa di giustizia casuale e quindi paradossalmente di ingiustizia», nel marasma di «una grande disorganizzazione e con scarsi mezzi». Da questo punto di vista, per paradosso, «l'esperienza in Cassazione è stata per certi versi inaspettatamente confermativa: un impressionante numero di cause da trattare in poco tempo, scarsi mezzi, mancanza di stanze». Il tutto accompagnato da una sensazione di «ineluttabilità» alla quale «si rassegna» chi pure lamenta «le cose che non funzionano», ultima goccia del cocktail che ora a Colombo fa dire: «Dare così poca cura a un'attività cruciale per l'amministrazione della giustizia è stata, per me, la definitiva conferma che c'è anche altro da fare». Altro rispetto ai processi. E prima dei processi: la condivisione delle regole. E qui sembra affiorare l'eco di una sconfitta, l'unica forse avvertita come davvero bruciante dall'ex pm di Mani pulite: corrotti e corruttori rientrati nella vita pubblica, o direttamente (votati) o indirettamente (nominati), comunque legittimati dai cittadini. Colombo si sente "tradito" dal "popolo" nel cui nome ha amministrato giustizia? «Piuttosto, sono contrariato nel vedere come la legalità, per questo Paese, sia ancora qualcosa che ha poche chances». Tra le concause, dice, « ha pesato il mutato atteggiamento dei media, le falsità dette contro le nostre indagini e talora contro di noi. Ma credo ci sia stato anche un altro elemento importante. All'inizio le indagini hanno coinvolto i livelli più alti della politica e dell'imprenditoria, perché nei loro confronti erano allora emersi gli indizi: persone lontane anni luce dal cittadino comune.


Poi, però, man mano che le indagini progredivano, sono comparsi anche fatti attribuibili a persone comuni: al maresciallo della Finanza, al vigile dell'Annonaria, al primario dell'ospedale, all'ispettore dell'Inps, al medico e ai genitori dei figli alla visita di leva, alla cooperativa di pulizie. E qui, ecco che l'atteggiamento della cittadinanza è cambiato». E voi magistrati siete finiti fuori mercato perché offrite un prodotto (la legalità) per il quale non c'è domanda? «Anche qui la misura della legalità è il rispetto dei principi costituzionali. Di legalità non c'è n'è abbastanza. Sono molti, per fortuna, coloro ai quali interessa la legalità, che vuol dire piena attuazione dei principi costituzionali della tutela dei diritti fondamentali e dell'uguaglianza di fronte alla legge. Ma non sono ancora abbastanza. E soprattutto, hanno una scarsissima rappresentanza, non trovano voce sufficiente. In alcuno dei due schieramenti». Colombo lo ricava «dal fatto che, altrimenti, sulla legalità sarebbero state fatte delle battaglie. E dico sulla legalità, non sul fatto che il signor Tizio o il dottor Caio siano colpevoli o innocenti: ad esempio sulla modifica delle regole del processo, per renderlo più agile e rapido; sulla dotazione di strumenti che consentano ai giudici di svolgere meglio la propria funzione; sulla cura della preparazione professionale». E' questo il fronte che ora sembra prioritario a Colombo. Il quale, a sorpresa, non ha tanta voglia di voltarsi per toccare con mano l'esito delle sue inchieste: «Vogliamo essere spietati? Sono magistrato dal 1974, per 3 anni giudice, poi da inquirente mi è capitato di occuparmi della loggia P2, dei fondi neri dell'Iri, di Tangentopoli, della corruzione di qualche magistrato. Alla fine — a parte la dovuta definizione giudiziaria delle singole posizioni —, i risultati complessivi di questo lavoro quali sono stati? Tra prescrizioni, leggi modificate o abrogate, si è sostanzialmente arrivati a una riabilitazione complessiva di tutti coloro che avevano commesso quei reati. Con un livello di corruzione percepita che non si è modificato. E, soprattutto, con una rinnovata diffusione del senso di impunità prima imperante».


Cambiare dall'interno, no? «Dovrebbe davvero cambiare tutto». E invece, «possibile che per selezionare i capi di uffici giudiziari di dimensioni pari a una grande azienda, continuiamo a fare le scelte, quando va bene, sulla base della capacità di condurre indagini o scrivere belle sentenze, qualità che nulla hanno comunque a che fare con la capacità di organizzare un ufficio? Anche a proposito delle questioni disciplinari, siamo sicuri che, nonostante tutti gli sforzi, pur fatti, non si potesse fare ancora di più per evitare che qualche magistrato fosse avvertito come arrogante o non sufficientemente dedicato alla sua funzione?». Per Colombo «l'Italia è un paese di corporazioni che per prima cosa si difendono autotutelandosi (ha presente l'espressione "cane non mangia cane"?)». E pur se «la magistratura mi sembra, tutto sommato, la migliore» di queste corporazioni, «anche al suo interno si avverte la tentazione di cedere alla stessa logica: la difesa della categoria, prima che dell'organizzazione, della disciplina, della laboriosità; con il rischio di isolamento per chi pensa il contrario». La decisione di guardare alle regole da una posizione diversa — confessa Colombo, ieri in Procura a salutare alcuni colleghi — «non è stata facile e continua ad essere molto sofferta. Non soltanto perché questo lavoro ha assorbito buona parte della mia vita, ha accompagnato la nascita dei miei figli, la morte dei miei genitori, è stato intriso di eventi di dolore squarciante (come gli assassinii, proprio qui a Milano, di Guido Galli e Emilio Alessandrini, e dei colleghi eliminati da terrorismo e mafia); ma anche perché tanti sono i colleghi, dai quali mi separo, che con cura, attenzione e direi ostinazione non hanno fatto altro che cercare di rendere giustizia. Ma a mio parere, perché non sia un compito immane, occorre anche altro: che l'atteggiamento verso le regole cambi anche fuori dai palazzi di giustizia».


Corriere della Sera (17 marzo 2007)


 

giovedì 25 gennaio 2007

Intervista a Leopoldo Pirelli


Conversazione di EUGENIO SCALFARI con LEOPOLDO PIRELLI


La Milano degli anni Cinquanta. Lo sviluppo industriale. La contestazione. Tangentopoli. A confronto ricordi e passioni di due protagonisti


IL RIMORSO DI UN GRANDE IMPRENDITORE


Le grandi aziende hanno sostenuto di essere vittime della corruzione. Ma non è stato così: concussi sono stati solo i piccoli imprenditori I grandi avrebbero potuto denunciare il sistema. Se ci fossimo uniti nessuno avrebbbe potuto fermarci Il mio rammarico è di non aver fatto questa proposta ai miei colleghi Cuccia è un fenomeno, non saprei definirlo diversamente: un miracolo della natura, della capacità di adattamento professionale. Anche se non condivido alcune sue mosse più recenti penso che sia un compendio di storia e sono convinto che dopo di lui molte cose saranno diverse


I DIALOGHI


"E TU che fai la sera? Anche tu navighi su Internet?" e sorride un po' per compatimento e un po' per invidia presumendo che io gli risponda che sì, la sera passo il tempo navigando in rete alla ricerca di meraviglie da scoprire. Ma io rispondo che no, non sono capace, mi rifiuto con la cocciutaggine degli anziani di imparare quelle poche mosse delle dita che mi introdurrebbero nell' universo virtuale e lui, Leopoldo Pirelli, sorride quasi con riconoscenza perché a lui capita esattamente la stessa cosa, avverte lo stesso rifiuto che lo blocca alla soglia di quella rete che ormai collega e avviluppa il mondo intero. Ci conosciamo più o meno da mezzo secolo con Leopoldo, le nostre strade come i nostri caratteri sono stati radicalmente diversi, eppure abbiamo sempre ascoltato l' uno il passo dell' altro, abbiamo avuto molti amici in comune e in comune anche quasi tutti gli avversari. Quando c' era in ballo qualche grossa e controversa questione, non soltanto economica ma anche sociale e perfino politica, io cercavo di conoscere quale fosse la sua posizione prima di prender partito: mi serviva di riscontro perché Leopoldo in qualche modo interpretava l' anima d' una borghesia imprenditoriale laboriosa, innovatrice, liberale, priva di pregiudizi e portatrice anche di una forte carica sociale che per i giornali che ho fatto e diretto è sempre stata un punto di riferimento morale, politico e anche editoriale. Quanto a lui, sovente è capitato che mi raccontasse qualcuna delle difficoltà che incontrava o delle idiosincrasie che avvertiva verso personaggi del suo mondo che, secondo lui, trasgredivano all' etica imprenditoriale. E più d' una volta abbiamo perorato insieme cause comuni che ci sembravano meritevoli per il bene del Paese anche se apparivano impopolari ai tanti demagoghi che di tempo in tempo infestano le nostre contrade. Tutti e due insomma appartenevamo (lui dice: "meno attivamente di te") a quel filone che si definì dei liberali di sinistra di cui Il Mondo fu l' incubatrice intellettuale, Ugo La Malfa il rappresentante politico e la borghesia imprenditrice avrebbe dovuto costituire il punto di raccolta e il motore di avviamento. Purtroppo questo terzo elemento mancò quasi del tutto. Leopoldo Pirelli fu spesso isolato nel suo mondo ed era troppo gentiluomo per farne un caso. La responsabilità aziendale che aveva, la biografia familiare di due generazioni prima della sua e un temperamento più attento a rispettare i limiti che a superarli lo indussero più al silenzio che all' eloquenza. Apparteneva a quella tradizione lombarda abituata a impegnarsi nel far bene il proprio mestiere, convinta che fosse quello il modo migliore per contribuire in silenzio ma con tenacia al bene comune. A questa regola non è mai venuto meno anche al prezzo di figurare in seconda linea rispetto a capitani d' industria dotati di maggior glamour e di più brillanti apparenze. ("Anche il Papa - osserva - oggigiorno beatifica un monaco perché era dedito al silenzio"). Faccio queste riflessioni usando i verbi al passato perché riguardano un' epoca che è ancora abbastanza vicina al presente ma che ne è invece molto lontana e radicalmente diversa a causa delle mutate condizioni in cui ora viviamo e che hanno configurato un mondo e una società che poco hanno a che fare con quella di cinquant' anni fa o anche soltanto di venti. Peggiore? Chiedo al mio amico che ha fin qui seguito quasi in silenzio le mie parole e la memoria in esse contenuta anche perché riguardavano la sua persona da me assunta come rappresentante di una fase, di un costume e di un ceto che speravamo numeroso e combattivo per realizzare quegli obiettivi PIRELLI. Come si fa a dire peggiore? La società si modifica impercettibilmente ogni giorno ma mentre quei cambiamenti invisibili avvengono non te ne accorgi nemmeno. Poi, a un certo momento, te ne rendi conto d' un tratto e senti che quel mondo non è più il tuo. Per questo t' ho fatto la domanda su Internet. Ecco: quando leggi sui giornali o senti parlare dagli amici più giovani delle scoperte, informazioni, giochi, poste elettroniche e tutto il resto che si può trovare e produrre "on line" come adesso tutti dicono; e tu non vuoi navigare in quello spazio, perché senti invece il desiderio di fermarti, di approfondire in te stesso il modo di rispondere a tutti quei dubbi che a 25 anni non avevi, che a 50 sentivi nel sottofondo, che a 74 consideri un patrimonio perché dal dubbio nasce la ricerca in senso lato, la vera origine del progresso dell' umanità. E guardando al mondo che ti circonda, vorresti, evitando la virtualità, tornare coi piedi sulla terra solida, ai rapporti veri tra le persone, ai gesti e ai comportamenti reali e non vivere fra simulazioni, sondaggi, scommesse sulle aspettative, insomma vorresti tornare alla ricerca di una traccia di umanità e di umanesimo. Beh, allora, mi sbaglierò, ma penso che forse è avvenuto un salto di qualità che io non ho assimilato, come d' altronde mi capita ai concerti di musica contemporanea alla Scala, non con il jazz". SCALFARI. Ripeto la domanda: una qualità migliore o peggiore? PIRELLI. Non so rispondere. L' età del ferro era migliore o peggiore dell' età bronzo? SCALFARI. Credo che gli eroi omerici appartenessero ancora all' età del bronzo. Dove vuoi arrivare con questo? PIRELLI. A niente. Chi potrebbe negare quale progresso hanno portato nel nostro vivere quotidiano, l' informatica e tutta la tecnologia dell' ultimo mezzo secolo. Resta il fatto che è cambiata la nostra vita, il nostro modo di osservare i fatti, il nostro modo di giudicarli. E naturalmente, per venire ad un aspetto che è stato gran parte della mia vita, è cambiato il modo di fare impresa. SCALFARI. E tu non ti ci ritrovi. PIRELLI. Diciamo che mi ci ritrovo poco. Con questo non faccio nessuna critica a chi fa l' imprenditore in modo diverso sempreché siano salvi, come di fatto avviene da noi in Pirelli, quei principi etici che io ho sempre cercato di rispettare. Sono cambiate molte cose. Oggi - come nel passato - l' amministratore riceve il mandato di gestire dai suoi azionisti: ma io ho sempre pensato che quel mandato comportasse responsabilità verso un mondo molto più ampio, e cioè verso tutte le parti associate. Intendo dire i dipendenti tutti, come esseri umani; intendo dire i collaboratori, in particolare cercando di penetrarne la personalità, di non ignorarne i problemi, anche quelli che avevano fuori dal lavoro; intendo dire i clienti, "nos vrais patrons", come Francois Michelin li chiama nel suo libro, perché dalle loro scelte dipende il successo della nostra impresa; oppure quei clienti a cui qualche volta devi chiedere di capire i tuoi problemi, come mi successe in un lontano colloquio col giovane Giovanni Agnelli, e lui accettò il mio ragionamento che tirare troppo sui prezzi può costringere il fornitore a tagliare le spese di ricerca con un conseguente peggioramento della qualità dei prodotti; intendo riferirmi ai partners delle tue produzioni, tanto più quando il lavoro indotto rappresenta una parte importante del mondo che orbita intorno all' azienda che dirigi. Intendo anche riferirmi al rapporto privilegiato con la città di origine, ma anche con tutte quelle molte località dove si è andati, in Italia e nel mondo, a costruire degli stabilimenti. Un rapporto con tutte le diverse parti associate, che cercava di essere aperto e umano, naturalmente nei limiti della compatibilità con l' efficienza aziendale. Capisci che cosa voglio dire?. SCALFARI. Capivo, certo che capivo. PIRELLI. Non è stato così anche per te? Non è stato questo il rapporto col giornale che hai fondato?. SCALFARI. Certo che capivo. Credo anzi che in un giornale quel rapporto di patriarcalità fosse anche più intenso che non in un' azienda industriale perché da noi la materia prima erano soltanto le persone, il loro talento, le loro qualità e difetti. E le loro idee, il loro stile, la loro scrittura. Ma da noi, voglio dire in un giornale, è ancora così: anche se le dimensioni sono cambiate, i giornalisti sono centinaia e centinaia i collaboratori, tuttavia la sostanza e la natura quasi artigianale del lavoro non è molto cambiata. Nell' industria invece che cosa è cambiato? PIRELLI. Molto. Le dimensioni dei gruppi, la tecnologia, il rapporto con il lavoro. La natura del capitale. I parametri che misurano l' efficienza. Adesso si chiamano Eva. Il nome è gentile, se vuoi è quasi seduttivo: Eva, invece è la sigla di un parametro necessario ma abbastanza spietato. SCALFARI. Che significa Eva? PIRELLI. Economic value- added. Valore economico aggiunto. Il compito primario dell' imprenditore di oggi è di produrre il maggior valore aggiunto possibile. La concorrenza sfrenata, ormai globale, porta a concentrare gli investimenti per aumentare il prodotto pro capite anziché per estendere la base produttiva, a inseguire l' aumento di produttività a preferenza di ogni altra alternativa. Aggiungi che in una grande azienda quotata in Borsa il capitale è diffuso tra i risparmiatori, i fondi, le banche. Chi sono gli azionisti? L' imprenditore non lo sa. Sa soltanto che sarà giudicato in base a Eva. In più deve decidere in fretta e ogni giorno. SCALFARI. Stai descrivendo un personaggio che sembra condannato ai lavori forzati. PIRELLI. Non dico questo, le sue pause di relax le ha come le avevamo noi. Dico che il suo mondo corre il rischio di essere fatto più di parametri che di facce e di anime. Non è colpa di nessuno, ma temo che sarà sempre più così. SCALFARI. Non è un bene che sia così? Leopoldo Pirelli si stringe nelle spalle e non risponde, lo sguardo si posa sui mobili del suo studio e io seguo quello sguardo, scrivania, poltrone, un divano. L' arredamento di quell' ufficio è singolare: poltrone e divano sono ricoperti da un vecchio cuoio rosso con ampie e irregolari striature bianche, è una decorazione voluta o sono le tracce del tempo che hanno raschiato il colore? PIRELLI. Era lo studio di casa di mio padre. Quando morì l' ho preso io e non me ne sono mai separato. Come ho cercato di non separarmi dal meraviglioso esempio che mi ha lasciato. SCALFARI. Ti ricordi la Milano di quando ci conoscemmo? Raffaele Mattioli, Adolfo Tino, Valiani, Giorgio Valerio alla Edison, Carlo Faina alla Montecatini, i Borletti. Cuccia era già al timone di Mediobanca. Montanelli era già il grande inviato del Corriere della Sera. Ricordi quei tempi? PIRELLI. Noi due eravamo molto giovani. Certo che ricordo. Per me allora erano mostri sacri e mi domandavo come facessero a dedicarmi del tempo, prendendo sul serio le cose che dicevo loro. SCALFARI. Ma invece nel Sessantotto eri già in sella. PIRELLI. Sì, la responsabilità dell' azienda era già da dieci anni sulle nostre spalle: dico nostre spalle perché la direzione era formata da quattro persone: Gigi Rossari, Franco Brambilla, Emanuele Dubini e il sottoscritto che, gradualmente, essi fecero emergere come numero uno. Ma tornando al Sessantotto, per me quelli furono mesi difficili. Ricordi le manifestazioni, i cartelli, gli slogans: Agnelli Pirelli ladri gemelli. SCALFARI. Come la prendesti? PIRELLI. Come un "basso" negli alti e bassi di una vita di lavoro. In Confindustria ero considerato un acceso riformista ma sulle piazze quelle distinzioni erano saltate. SCALFARI. Tu avevi già preparato un programma sugli orari di lavoro alla Pirelli che per quei tempi sembrò rivoluzionario. PIRELLI. Era molto avanzato, sì: quaranta ora invece delle quarantasei in vigore, stesso salario, cinque giorni di lavoro alla settimana con turni anche di sabato e di domenica. Ciò che si perdeva con l' orario ridotto si riguadagnava facendo lavorare maggiormente gli impianti. Naturalmente la condizione preliminare era un' economia in espansione, altrimenti sarebbe stato impossibile. SCALFARI. Come fu accolto dai sindacati? PIRELLI. Male: il progetto fu respinto. Non ho capito a tempo che per farlo decollare, bisognava fare in modo che uscisse da un loro cassetto. SCALFARI. Pensi che l' ipotesi attuale dell' orario di trentacinque ore sia insopportabile per le imprese? PIRELLI. Credo sia una questione di organizzazione del lavoro: connettere l' orario ridotto con una maggiore flessibilità ed esaminarne l' attuazione contrattualmente azienda per azienda. SCALFARI. Quale ricordo hai dei capi sindacali di allora? PIRELLI. Ho sempre considerato la Cgil e chi l' ha guidata, Di Vittorio, Lama, Trentin e ora Cofferati, come gente seria e affidabile. Le trattative erano dure, difficili ma quando si arrivava ad una soluzione non hanno mai mancato alla parola data. Aggiungo che il sindacato ha fatto molti passi avanti sul piano della modernità, con una visione più globale e meno classista dei problemi. SCALFARI. Poi ci fu, mi pare nel ' 69, un' altra riforma che ha preso il tuo nome: la riforma dello statuto della Confindustria. PIRELLI. Sì, la Commissione Pirelli. Fino a quel momento in Confindustria tutto veniva deciso da sei o sette persone, rappresentanti delle imprese che pagavano il grosso dei contributi associativi. Ad un certo punto Angelo Costa che presiedeva la Confederazione e che era un grande personaggio capì la necessità di mutamenti. Io gli avevo da tempo esposto le mie idee e lui mi affidò il compito di presiedere la commissione di riforma. La struttura organizzativa tuttora operante viene, almeno nelle sue linee fondamentali, dal lavoro di quella Commissione. Si voleva, e si è ottenuta, un' organizzazione più democratica, che accogliesse anche le posizioni della piccola e media industria e dei giovani. SCALFARI. Sei anche tu un passionario della flessibilità? PIRELLI. Passionario no, è una definizione che non mi si addice, ma certo è meglio un' occupazione sia pure parziale, quale ne sia la forma contrattuale, che la disoccupazione. Gli Stati Uniti hanno capovolto positivamente il mercato del lavoro adottando una flessibilità massima. In Europa questo non è avvenuto ma qualche cosa si sta muovendo. D' altronde la flessibilità considerata in senso lato è un fenomeno che non tocca solo il mondo del lavoro: le famiglie diventano un' istituzione sempre più evanescente, le radici e le culture si fanno sempre più fragili, la composizione stessa delle popolazioni va mutando a causa dei movimenti migratori. SCALFARI. Non mi hai detto nulla di Cuccia. Tu lo conosci molto bene. PIRELLI. Come mai parlando di flessibilità, ti viene in mente Cuccia? Cuccia è un fenomeno, non saprei definirlo diversamente: un miracolo della natura, della capacità di adattamento professionale. Anche se non condivido - ma questo è un pensiero personale - alcune sue mosse recenti. Certo è un fenomeno difficilmente ripetibile. SCALFARI. Dopo di lui il diluvio? PIRELLI. Diluvio è una parola grossa. Cuccia è un compendio di storia: dopo di lui molte cose saranno diverse. SCALFARI. E la Banca d' Italia? PIRELLI. è già profondamente cambiata con la nascita dell' euro e della Banca centrale europea. SCALFARI. Hai conosciuto da vicino i Governatori della Banca? PIRELLI. Carli, ma non molto. Ebbi simpatia e fiducia in Baffi. Ho avuto grande e affettuosa intimità con Ciampi che in occasioni difficili mi è stato prodigo di consigli e di sostegno. Ciampi è persona a cui tutto il Paese deve moltissimo. SCALFARI. Non ti è mai venuto il desiderio di scrivere un libro di memorie? Ne avresti di cose da raccontare. PIRELLI. Sì, m' è venuto. Ma l' ho scartato. A che cosa sarebbe servito? SCALFARI. A trasmettere un' esperienza, direi. PIRELLI. Hai ragione, trasmettere un' esperienza. Ma trasmettere ad altri la propria esperienza è impossibile: le esperienze d' una persona sono soltanto sue, i contesti in cui si sono svolte sono irripetibili. Forse puoi trasmettere un esempio, ai figli, a chi ha lavorato con te. Nella mia cerchia questo è avvenuto. E poi ciascuno deve vivere la propria vita. SCALFARI. Mi dici qual è stato il tuo maggior rammarico? PIRELLI. Credo d' aver lavorato con coscienza, con qualche buon risultato ma facendo anche errori; senza portarne rimorsi però, perché credo di aver agito sempre in buona fede. O meglio, un rimorso c' è. Riguarda il periodo di Tangentopoli. SCALFARI. Mi sorprendi. PIRELLI. E perché? Tu sai che alcuni imprenditori hanno sostenuto di essere stati in qualche modo costretti a pagare partiti, uomini politici, pubblici amministratori, altrimenti le aziende non avrebbero potuto lavorare. Hanno sostenuto cioè d' esser stati vittime di una concussione generalizzata. SCALFARI. Non è stato così? PIRELLI. No, non è stato così. Concussi sono stati i piccoli imprenditori costretti ad allungare il milione o i dieci milioni al vigile urbano o al finanziere o all' assessore per ottenere una licenza o un favore fiscale. Ma non le maggiori imprese del Paese. Se una decina di grandi aziende avessero insieme denunciato la corruzione che era diventata sistema, nessuno avrebbe potuto impedircelo e schiacciarci, tutti insieme eravamo forti a sufficienza per schiacciare quel malcostume. SCALFARI. Come mai non è avvenuto? L' hai proposto agli altri tuoi colleghi? PIRELLI. No, è per questo che sento rimorso. Poi è arrivata la magistratura. Nonostante errori e interventi a volte discutibili, io penso che il giudizio storico sul comportamento della magistratura sarà positivo.


la Repubblica - Mercoledì, 27 ottobre 1999 - pagina 1


 

venerdì 5 gennaio 2007

Il Cavalier Bonaventura


Famiglie e finanza. Nel 2006 Le finanziarie che controllano il 61% di Fininvest hanno segnato un utile di 135 milioni.


Cedola record per Berlusconi

Il Cavaliere incassa un assegno di 215 milioni di euro tra profitti e riserve.




I NUMERI DELLE CASSEFORTI

Quattro holding hanno in cassa disponibilità liquide per 270 milioni di euro.

Versati 450mila euro in opere di beneficenza

LO «SCRIGNO» DEI FIGLI

Nell’ultimo anno anche le società che fanno capo a Marina e Piersilvio hanno distribuito un dividendo complessivo di 32 milioni


Marigia Mangano


Il Sole 24 ore 4 gennaio 2007


 


Il 2006 sarà ricordato per due motivi da Silvio Berlusconi: sul fronte politico è stato l’anno che ha segnato il passaggio all’opposizione, sul fronte finanziario quello che ha regalato un record assoluto alle «entrate personali» del Cavaliere. Nel 2006 l’assegno staccato dalle quattro holding di proprietà diretta di Berlusconi (la holding italiana prima, seconda, terza e ottava che controllano il 61,13% della Fininvest) è stato pari a 215 milioni di euro, il doppio rispetto a un anno prima. Un prelievo «importante» se si pensa che nel 2005 l’intero “sistema holding”, formato dalle sette casseforti che custodiscono il 100% del gruppo di via Paleocapa, ha distribuito alla famiglia 141 milioni di euro a fronte di un utile di 172,9 milioni (nel 2004 il monte dividendi aveva raggiunto appena i 79 milioni di euro). La decisione di fare cassa (seguita anche da Piersilvio e Marina che nel 2005 avevano invece rinunciato al dividendo) non ha prosciugato le riserve liquide delle holding del Cavaliere che possono ancora contare su 270 milioni di euro depositati in banca.


Maxidividendo al Cavaliere

Ad Arcore la scelta è stata duplice: distribuire integralmente gli utili (record) macinati dalle sette finanziarie che controllano la Fininvest e attingere alle «riserve» disponibili. Quanto basta per far sì che il 2006 sia ricordato in casa Berlusconi come l’anno delle maxi cedole. Le quattro holding del Cavaliere hanno inanellato un altro record storico sul fronte dei dividendi e dei profitti. Nel 2006, tutte insieme hanno registrato un utile di 135 milioni contro i 106 milioni del 2005. Ma a esplodere sono state le cedole: 215 milioni a titolo personale contro i 107 milioni dello scorso anno. La holding italiana prima per esempio, a cui fa capo il 17,5% della Fininvest, ha segnato un utile di 41,4 milioni, ma ha distribuito al Cavaliere 64,9 milioni, attingendone una ventina di milioni dalla riserva straordinaria. Copione simile per le altre holding personali: la holding italiana seconda ha archiviato il 2006 con un utile di 33 milioni, ma ne ha distribuiti 54,9; la holding italiana ottava ha registrato profitti per 45 milioni, ma ha staccato una cedola di 84 milioni. Solo la holding terza, a fronte di utile di 16 milioni, ha versato nelle casse del Cavaliere solo 11,7 milioni.


Cedola a Marina e Piersilvio

La scelta di «fare cassa» è stata seguita anche dai figli Piersilvio e Marina che hanno incassato 16 milioni a testa a fronte di un utile complessivo della due holding di proprietà (holding italiana quarta e holding italiana quinta) pari a 32,3 milioni. Questo dopo che lo scorso anno gli stessi avevano rinunciato alla cedola, accantonando i 13 milioni di utili registrati dalle loro holding nel 2005. Non solo. Le due finanziarie hanno registrato ottimi risultati anche sul fronte delle gestioni patrimoniali affidate a Morgan Stanley e a Banca Arner.


Per la holding italiana quinta di Piersilvio, il saldo delle operazioni su titoli e cambi è stato positivo per 740 mila euro, mentre la finanziaria che fa capo a Marina ha segnato un saldo positivo per 300 mila euro. Mancano all’appello, in quanto i documenti non sono stati depositati, i numeri della holding italiana quattordicesima che fa capo ai tre figli più piccoli di Berlusconi, Eleonora, Luigi e Barbara,

Parte immobiliare Dueville


Tra le altre curiosità dei bilanci emerge, inoltre, che neocostituita Immobiliare Dueville sembra ora pronta a concretizzare qualche mossa nel mondo immobiliare. La società, infatti, nata alla fine del 2005 ha messo in cantiere un aumento di capitale di 1,5 milioni di euro a cui la holding italiana prima e la holding italiana ottava, che detengono il 30% ciascuna del capitale, hanno partecipato versando 450 mila euro a testa. Infine, il capitolo donazioni. Nei bilanci di riferimento delle quattro holding del Cavaliere si scopre infatti che anche lo scorso anno sono proseguiti gli «aiuti» nei confronti degli enti no profit. La holding italiana prima, per esempio, ha versato attraverso la Comunità Incontro di don Pierino Gelmini 350mila euro a sostegno delle popolazioni del Sudest Asiatico, mentre per la holding ottava l’assegno è stato di 100mila euro.